Eccoci a un’altra puntata dedicata a Lars Von Trier. Ti sei perso la prima? Nessuna paura, la puoi sempre recuperare qui: Lars Von Trier: la Monografia pt.1! Una volta letta l’introduzione e il nostro approfondimento sulla “Trilogia europea”, sei pronto per ripartire con noi verso l'”universo Von Trier”.
Vediamo oggi un’altra trilogia del regista danese che non ci potrà lasciare indifferenti. Le eroine di questi film hanno un cuore buono, “d’oro”, direbbe il nostro Von Trier. Ma aspetti positivi quali dolcezza, delicatezza e sensibilità non sono altro che armi contro se stesse e nulla potrà salvarle dal loro drammatico destino.
LA TRILOGIA DEL CUORE D’ORO: QUANDO LA BONTÀ NON PAGA.
Le onde del destino (Breaking the Waves) – 1996
Sette capitoli più epilogo per l’emozionante film di Lars Von Trier Le onde del destino: questa è la divisione che il regista assegna a un’opera del tutto particolare.
La trama si basa su un concept semplice ma potente: Bess McNeill (Emily Watson), una ragazza scozzese dall’immensa bontà ma affetta da gravi problemi psicologici, decide di sposare Jan (Stellan Skarsgård), un forestiero di cui lei stessa non sa nulla se non che lavora su una piattaforma petrolifera e che sarà quindi costretto ad assentarsi spesso da casa. La lontananza tra i due non aiuta Bess, le cui crisi isteriche si presentano con maggior frequenza man mano che il tempo passa, e nemmeno la religione, in cui la giovane ha sempre creduto fermamente, sembra offrirle una soluzione.
Dopo poco tempo che i due sono distanti, un incidente sul lavoro lascia gli arti inferiori di Jan del tutto paralizzati, rendendo così impossibile soddisfare sessualmente la moglie, di cui sembra davvero innamorato. Proprio in nome di questo amore, Jan, su idea della cognata Dodo (Katrin Cartlidge), prega Bess di andare a letto con altri uomini e di tornare poi a riferirgli le sensazioni provate. Al rifiuto di Bess, scatta la minaccia: se Jan non si dovesse più ricordare com’era fare l’amore, ne morirebbe; Bess deve dunque farlo per lui, non per se stessa. L’idea sostenuta da Dodo si rivela veritiera: «Lei per te farebbe tutto. […] Non gliene importa niente di se stessa». Nonostante il forte disgusto che la ragazza all’inizio prova e all’opposizione della comunità religiosa, Bess dà avvio a una serie di esperienze sempre più degradanti per rendere il marito felice e “farlo vivere”.
La chiusa e ipocrita comunità religiosa di cui Bess fa parte – per la quale non c’è bisogno di campane per richiamare i fedeli alle funzioni e le donne non possono parlare durante la celebrazione liturgica, né partecipare ai funerali – non fa nulla per aiutare Bess, la quale è sempre più convinta che sia lei la causa dell’infermità di Jan: non aveva in fondo chiesto a Dio che il marito tornasse a casa il prima possibile? Arrivata alla prostituzione, la giovane viene stuprata sino a che non è in fin di vita. Il finale, commovente e delicato, lascia sentire (e poi vedere) suonare delle campane, come a prendere le distanze dalla finta religiosità di cui si faceva portavoce la comunità rappresentata nel film.
Bess, presa per pazza da tutti, è una donna forte, tenace, che farebbe qualsiasi cosa per le persone che ama. Lei, che prima di incontrare Jan non era mai andata a letto con nessun uomo, si concede al marito durante il ricevimento di nozze con una voluttà fuori dal comune, fino alla degradazione morale di cui si è detto pur di mantenere Jan in vita. Questa generosità di Bess torna come un filo conduttore in più parti della pellicola, tant’è che nel finale il suo medico curante, testimone in tribunale, la definisce «affetta da una forma di bontà». Troppo buona, insomma, per essere parte di quel piccolo mondo che non è capace di capirla e la condanna all’inferno per la sua condotta scandalosa.
Le onde del destino, girato con maestria attraverso riprese a mano in cui si fa uso spesso di inquadrature sfocate, narra la storia di una donna davvero disposta a donare la propria vita pur di salvare chi ama. Lars von Trier misogino? Forse, ma di certo non si possono dimenticare le parole messe in bocca a Dodo, anche lei proveniente da “fuori” rispetto alla comunità di Bess, secondo la quale «una donna deve ragionare con la propria testa». Bess, in questo, non è certo da meno.
Magistrale l’interpretazione di Emily Watson, divenuta nota a livello internazionale proprio grazie a questo film, in cui alterna parti dove è una sciocca ragazzina viziata e fuori di testa ad altre in cui mostra tutto il coraggio di cui è capace. Indimenticabili le scene in chiesa: la voce tenera e spaventata di Bess si alterna ai fermi imperativi (e rimproveri) di Dio, sempre messi sulle labbra della stessa Watson, che sembra così divisa tra due opposte volontà compresenti in lei.
Idioti – 1998
Idioti è un film che esprime il rimpianto per la Nouvelle Vague, alla quale Dogma 95 si ispira nell’ansia di un rinnovamento del cinema. Idioti segue infatti le regole del collettivo con la speranza, proprio come il movimento francese della fine degli anni ’50, di portare novità all’interno del panorama cinematografico contemporaneo. Elementi tipici di questo Dogma#2, questo il sottotitolo di Idioti, sono le riprese a colori solo in esterni con luci e rumori naturali, l’uso della macchina a mano, la proibizione nell’impiego di filtri e trucchi ottici.
La sceneggiatura è stata scritta in soli quattro giorni poiché nasce da un’idea base abbastanza semplice: un gruppo di giovani decide di ribellarsi ai valori della borghesia e, per sfidare i limiti che si è auto-imposto, recita la parte degli “idioti” in alcune situazioni tipiche della società. La “regola del gioco” diviene insomma un “gioco senza regole”. Si tratta quindi di un gioco fine a se stesso che è pura provocazione.
Chi guida il pubblico all’interno di questo percorso è Karen (Bodil Jorgensen), l’ultima arrivata. La ragazza si domanda quale sia il senso di un simile atteggiamento e la risposta è di grande impatto: bisogna trovare il proprio “idiota interiore”, ossia il punto in cui si nascondono i sentimenti più veri di ognuno. Arrivare a questa conclusione significa essere lucidi a fronte di una società che crea esseri umani sempre più infelici. Basta lasciare andare le proprie repressioni, dicono a Karen. È questa la chiave per essere accolta all’interno del gruppo.
Un film importantissimo per Dogma 95, fondamentale per scoprire o ripercorrere la poetica del nostro regista visionario e sempre fuori dagli schemi. Nessun’altra opera di Von Trier ha fatto discutere tanto quanto Idioti e la provocazione del regista raggiunge qui il livello massimo.
Dancer in the dark – 2000
Già il titolo è un perfetto riassunto di questa perla di Lars von Trier: danzatrice nell’oscurità. Sì, in questo film si balla: siamo dunque nel genere del musical. Un musical atipico, vedremo poi. E “nell’oscurità” perché la nostra protagonista, Selma (Björk), è soggetta a una malattia che la priva progressivamente della vista.
Siamo a metà anni Sessanta, in una cittadina industriale dello Stato di Washington. Selma è un’emigrata cecoslovacca che lavora come operaia in una fabbrica e svolge lavori extra per permettersi, in futuro, un’operazione chirurgica agli occhi. Ma questo intervento non sarà per lei, bensì per il figlio dodicenne, colpito dalla stessa patologia della madre.
Selma continua così a dimostrare la tempra delle eroine della trilogia “Cuore d’Oro”: dopo la Karen di Idioti e la Bess delle Onde del destino, non potevamo che avere una donna sola e volitiva, disposta a tutto pur di aiutare il figlio. Partendo dalla figura di Selma, si sviluppa attorno a lei la storia di un’ideale per il quale tutto il resto sembra scomparire: il sacrificio per il proprio figlio supera le fatiche del lavoro in fabbrica e la consapevolezza di diventare presto cieca.
L’ossessione di Von Trier e la risposta delle eroine della trilogia “Cuore d’Oro”.
Una domanda sembra ricorrere, a mo’ di fil rouge, in tutti i film del regista: qual è il senso della nostra esistenza? Veniamo al mondo per un motivo o siamo qui solo di passaggio e ce ne andremo senza lasciare traccia? Ecco, sacrificarsi per un’idea o una fede sembra dare una risposta a queste domande perché in grado di fornire il significato a un’intera esistenza.
Selma è al lavoro, in fabbrica, e inizia a sognare: a questo punto la ragazza balla e canta, si sente più felice e la fatica, per un attimo, svanisce. La commistione tra reale e immaginario nelle scene musicali viene assicurata anche dalle modalità di ripresa: dal color seppia si passa a colori realistici e le sequenze vengono riprese con più telecamere fisse (ben cento nella sequenza del treno!) che inquadrano i dettagli dei personaggi. Tutto il resto del film è girato con la telecamera a mano, che dà quel senso di “mosso” e di amatorialità a cui il cinema hollywoodiano non ci ha abituati.
Come si può vedere, Dancer in the dark rappresenta un musical per niente scontato, sia sul piano tecnico sia su quello del contenuto. È profondo, toccante, commovente. Impossibile non piangere a fine film. Da vedere e rivedere senza mai pentirsene. Anche (e soprattutto) per chi non è un amante del genere musical.