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Lars Von Trier: la Monografia pt. 1

INTRODUZIONE: IL SASSOLINO NELLA SCARPA.

Lars Von Trier è uno di quei registi che sanno farsi amare od odiare per gli stessi identici motivi. Molti lo criticano per il suo spirito fin troppo provocatore, molti altri lo adorano per questo; molti criticano il suo modo di fare cinema, spesso definito come autoreferenziale o fine a sé stesso, molti altri amano il suo modo di intendere il cinema. E la lista di esempi potrebbe continuare all’infinito. Lars Von Trier è un artista che ha bisogno di far parlare di sé, ha bisogno di essere provocatore e, a tratti, estremo (celeberrimo è l’”incidente diplomatico” scaturito dalla sua battuta su Hitler a Cannes, durante la conferenza stampa di Melancholia, quando disse “Io capisco Hitler. Non è ciò che si definirebbe un bravo ragazzo ma lo capisco, simpatizzo con lui.”). La sua vita, scandita da bottiglie di alcolici ed uso di sostanze stupefacenti, è il perfetto specchio della sua essenza artistica. La sobrietà non appartiene all’universo trieriano, sebbene ormai non faccia più abuso di alcool e droghe. Lars Von Trier e il suo cinema orbitano attorno ad una visione estremamente pessimistica dell’esistenza e del mondo e ad un costante tentativo di spingersi oltre i limiti della sua arte, realizzando anche film piuttosto sui generis come Le cinque variazioni o tecnicamente bizzarri come Il grande capo, realizzato con il sistema Automavision. L’esempio più importante e noto del suo andare oltre la comune idea di cinema è, però, il celeberrimo Dogma 95 (definito da Von Trier stesso come “piccola sciocchezza”), un decalogo compilato da Von Trier e dal suo amico Thomas Vinterberg, il cui scopo era purificare il cinema. Le regole erano molto rigide ma pochissimi film che hanno aderito a questo dogma le hanno rispettate tutte, lo stesso Von Trier ha “sgarrato” più di una volta. Tra le regole più importanti possiamo citare: l’assoluta assenza di “trucchi” cinematografici, come effetti speciali, fotografia artistica o l’uso del bianco e nero; la macchina da presa deve essere sempre tenuta a mano; il sonoro non deve essere registrato separato dall’immagine; il regista non deve essere accreditato. Insomma, l’obiettivo del Dogma 95 era quello di sradicare dal cinema qualsiasi artificio che allontanasse l’opera cinematografica da una dimensione di estremo realismo, ancora più radicale del neorealismo italiano, per tornare ad un cinema primitivo.

Guardare un film di Von Trier significa immergersi in un universo dominato da sensazioni negative ed abitato da persone dal destino infausto e tragico. Il cinema, per il regista danese, “dovrebbe essere come un sassolino nella scarpa”, come dice egli stesso in Epidemic, secondo capitolo della “trilogia europea”, un film dovrebbe causare disagio e fastidio, non dovrebbe essere un’esperienza piacevole. Il danese vuole realizzare opere che si distanzino da “quei film commerciali che […] sono rivolti esclusivamente ad allietare il pubblico” (Lars von Trier e Dogma, Tina Porcelli, Il Castoro cinema, 2001). La penna dell’autore danese si diverte a far vivere ai suoi protagonisti un inferno senza fine, maltrattandoli e distruggendoli psicologicamente: pensiamo a Selma (Björk), la protagonista di Dancer in the Dark, uno dei musical più estremi di sempre, la cui innocenza e bontà divengono armi autodistruttive, alla Joe (Charlotte Gainsbourg) di Nymphomaniac o, ancora, alla protagonista di Dogville, Grace (Nicole Kidman), schiavizzata da una piccola cittadina sperduta degli Stati Uniti. Questi abusi ai danni delle protagoniste femminili dei film di Von Trier  hanno instillato nella mente di molti spettatori la convinzione che il regista sia misogino, tuttavia chi sta scrivendo in questo momento è convinto dell’esatto opposto. Le donne dei film di Von Trier sono fortissime, riescono a sopportare le peggiori torture del destino con coraggio estremo, senza mai fuggire: Justine (Kristen Dunst, la protagonista di Melancholia), a differenza della sorella o degli scienziati, non ha paura del pianeta Melancholia né prova a convincersi che non si schianterà sulla Terra; Grace si fa sfruttare dagli abitanti di Dogville ed ha il coraggio di reagire con forza; Selma affronta il proprio tragico e fatale destino, dettato dalla sua immensa bontà,  senza cercare di difendersi da un’accusa totalmente infondata. Come si può definire misogino un autore che dona alle proprie protagoniste una forza ed un coraggio incommensurabili, al di là di ogni possibile immaginazione?

Lars Von Trier è stato fortemente influenzato dal cinema d’autore europeo, quel cinema così denso di significato e così poetico che ha saputo plasmare la mente del regista danese sin da giovane ed il suo modo di intendere e vedere il cinema. Ingmar Bergman, Andrej Tarkovskij (al quale ha dedicato Antichrist) e, soprattutto, Carl Theodor Dreyer sono solo alcuni dei grandi maestri del passato senza i quali il cinema di Von Trier non sarebbe mai esistito per come lo conosciamo: “Con Dreyer ho quasi un rapporto sacro”, ha affermato in un’intervista riportata nel libro “Lars Von Trier. Interviews” di Jan Luholdt (University Press of Mississippi, p. XIII). In particolare, Dreyer è stato fondamentale per lo sviluppo artistico del regista protagonista di questa monografia, grazie alla sua austerità e il suo “minimalismo”. Pensiamo, ad esempio, al succitato esperimento radicale del Dogma 95, che affonda le proprie radici nel cinema di Dreyer, e, in modo più diretto, al film per la televisione Medea, diretto da Trier su una sceneggiatura scritta da Dreyer ma mai realizzato dal Maestro danese.

LA TRILOGIA EUROPEA: QUI VIVE L’ANARCHIA, NON LA LIBERTA’.

L’avventura di Lars Von Trier da regista di lungometraggi ha inizio tra il 1984 ed il 1991, con la cosiddetta “Trilogia europea”, composta da L’elemento del crimine, Epidemic ed Europa. Si tratta di tre opere che, all’occhio di chi è abituato ad un certo cinema trieriano, potrebbero risultare aliene, ben lontane da quello stile che si sarebbe confermato a partire dall’ideazione del Dogma 95 e che si sarebbe evoluto e perfezionato negli anni successivi. Tutti e tre i capitoli sono stati accompagnati da altrettanti manifesti nei quali Von Trier analizza diversi aspetti del cinema e che aiutano a comprendere la poetica e la filosofia artistica dell’autore danese. Vediamoli brevemente (per leggere la versione integrale del manifesto, cliccate sui link):

Primo Manifesto (3 maggio 1984): il matrimonio tra “regista-maschio” e “film-femmina” è giunto ad un momento in cui la noia domina il rapporto. I registi hanno distrutto i film non vedendo la “scintilla divina” nel loro sguardo. Bisogna tornare ad un momento del rapporto regista-film in cui l’amore tra i due sia spontaneo e dalle cui immagini trapeli la gioia della creazione. Bisogna cercare la sensualità.

Secondo Manifesto (17 maggio 1987): la bazzecola è avvolgente e i capolavori risiedono proprio nelle bazzecole. Epidemic è una bazzecola.

Terzo Manifesto (29 dicembre 1990): la confessione di Von Trier, che si definisce come un “masturbatore dello schermo” e descrive il processo creativo di un film come piacere carnale. Quando un film viene proiettato, nasce la “scintilla miracolosa della vita”. Per il regista danese, un film è un’esperienza erotica che rilascia “onde orgasmiche”.

L’elemento del crimine

Il debutto di Von Trier del 1984 è un film assai particolare, un noir sui generis che lascia già presagire le qualità artistiche ed estetiche del regista danese, pur essendo un film lontano anni luce dallo stile che Von Trier svilupperà negli anni a seguire. È la storia di un detective, Fisher, che ricorre all’ipnosi per curare un mal di testa che lo tormenta da un po’ di tempo. Durante queste sedute ipnotiche, viene spinto a ricordare i due mesi precedenti passati in Europa, durante i quali ha seguito le indagini sull’omicidio di una bambina che vendeva biglietti della lotteria. La narrazione, dunque, è affidata a costanti flashback ed è perennemente notturna. Tutta la pellicola è dominata da una luce gialla (che alla lunga un po’ affatica l’occhio dello spettatore), che dà al film un aspetto quasi itterico, come se la storia che si sviluppa attraverso i circa 90 minuti fosse una malattia, come se il lungometraggio stesso fosse una malattia. La malattia di una società infetta e decadente, perfettamente rispecchiata nei luoghi in cui Fisher si muove, un’Europa fatta di alberghi fatiscenti, lampadine nude e finestre impolverate. Un’Europa in cui domina la sopraffazione reciproca, priva di buoni sentimenti. “Qui regna l’anarchia, non la libertà. L’anarchia”, dirà verso la fine del film Kramer, il capo di Fisher.

Epidemic è, tra i tre, il film più particolare. Si tratta di un lungometraggio in cui lo stesso Lars Von Trier ed il collega Niels Vørsel, a cinque giorni dalla consegna di una sceneggiatura, scoprono che il dischetto su cui questa era salvata è danneggiato. Decidono, così, di scriverne una ex novo, la cui storia è quella del dottor Mesmer (interpretato dallo stesso Von Trier) che sta cercando la cura per un’epidemia che si sta diffondendo in tutt’Europa. In questo secondo capitolo della trilogia, vediamo realtà e finzione che si alternano e si rincorrono, si incontrano e si fondono, usando come anello di congiunzione la figura di Lars Von Trier, che interpreta sia sé stesso nelle parti dedicate alla realtà sia il protagonista della storia che sta scrivendo insieme a Vørsel. Si tratta di un’opera che agisce su più livelli e che si fa vettore di diversi messaggi: da quello puramente cinematografico, una critica al cinema europeo contemporaneo, che Von Trier sembra quasi considerare debole e poco interessante (messaggio celato nella summenzionata citazione “un film dovrebbe essere come un sassolino nella scarpa”), a quello socio-culturale, che attacca numerosi aspetti della cultura europea, messaggio estrinsecato nella lunga e bellissima scena dell’incontro tra Mesmer e gli altri dottori, uno dei quali, incaricato di creare un governo provvisorio, assegna a diversi suoi colleghi altrettanti ministeri: in particolare, quelli più significativi sono il ministro della pubblica istruzione, uno studioso che si occupa di anestesia, ed il ministro degli affari ecclesiastici, un patologo. La critica mossa da Von Trier è più che evidente, l’istruzione nell’Europa contemporanea è uno strumento di soggiogazione, una sorta di “oppio dei popoli”, per riciclare una celebre citazione di Karl Marx, mentre la religione è una malattia, un morbo che sta infettando la popolazione e che va estirpato. A  proposito di quest’ultimo aspetto, non è un caso che una delle vittime dell’epidemia che Mesmer sta cercando di curare sia proprio un prete.

Epidemic

Europa, ultimo capitolo della trilogia, era già nella mente di Von Trier e del suo amico e sceneggiatore Vørsel quando presentarono a Cannes Epidemic. O meglio, sapevano che si sarebbe intitolato Europa, che avrebbe avuto un sottotitolo, “Sostanza concettuale”, e che avrebbe proseguito quel filo conduttore che aveva già unito i due film precedenti, quello dell’ipnosi. Il loro scopo era quello di ipnotizzare lo spettatore per mezzo delle immagini, un’idea che a lungo ha risieduto nella mente del regista, tanto che ha addirittura detto, ad un’intervista ai Cahiers du cinéma: “Sarebbe favoloso riuscire a ipnotizzare il pubblico con qualche immagine e poi non avere un film da mostrare, ma giusto fargli vedere la parola “fine” risvegliandolo dopo un’ora e mezza. Sarebbe il film assoluto!” (intervista riportata in Lars Von Trier e Dogma, Tina Porcelli, Il Castoro cinema, 2001, p. 71).

Europa

In questo terzo film, l’ipnotizzatore è Max Von Sydow, che accompagna tanto lo spettatore quanto il protagonista nel suo viaggio. Europa si apre con una lunga inquadratura su dei binari che, come pellicola, scorrono davanti alla macchina da presa, emergendo dal buio. Al termine di questo percorso, il Vecchio Continente che dà titolo al film, raggiunto su ordine di Von Sydow: “Al conto mentale di dieci ti troverai in Europa. Ci arriverai al dieci. E io dico dieci.” Il treno è presenza costante nell’opera, il “basamento visivo del film”, costantemente riecheggiato nella regia di Von Trier, che usa frequenti carrellate, con la macchina da presa che si muove su binari molto simili a quelli dei treni, e che rifiuta anche la minima panoramica: un movimento simile ad una panoramica, sarebbe strano e distruttivo per un treno, giusto?

Leopold Kessler, il protagonista, non è un personaggio fortunato, anzi, il destino lo deride. Infatti, fuggì dalla Germania per non divenire vittima della guerra e, una volta tornato in Patria, morirà in periodo di pace. Come le protagoniste della stupenda “trilogia del cuore d’oro”, anche Leopold sembra quasi un giocattolo tra le mani perverse e sadiche del fato. A differenza delle tre donne, però, Leopold è reo di una colpa, quella di non aver preso una posizione tra le fazioni che in questo mondo decadente si son formate: “Nelle scene finali il destino è molto importante. Si basa sull’idea che il vero criminale sia colui che non si schiera.