Ringraziamo la nostra amica e fan Elisa Bruno per la recensione di La ragazza del treno!
Rachel Watson (Emily Blunt) viaggia ogni giorno in treno. Dal finestrino vede il medesimo paesaggio, mattino e sera. E’ per lei un appuntamento, o meglio un’ossessione a cui non può rinunciare.
A Rachel, in verità, non importa nulla del paesaggio: vuole osservare unicamente due donne in due belle residenze molto vicine. Nella vita della prima, Megan, vede rispecchiarsi ciò che ha perduto. Nella vita della seconda, Anna, vede ciò che le è stato sottratto, poiché essa è ora moglie di Tom (Justin Theroux), suo ex marito.
La protagonista è un’alcolista: beve per rendere “vivibile” la sua vita e per riuscire a sopportare quella delle altre due donne. E l’alcolismo è stato proprio la causa dell’abbandono da parte del marito. Il quartiere residenziale che osserva dal treno ogni giorno è quello in cui abitava lei stessa. Non è casuale la sua scelta di osservare proprio quelle persone. Un giorno la bionda Megan scompare, e Rachel si sente in dovere di far sapere al marito Scott (Luke Evans) ciò che ha visto.
Facendosi passare per un’amica, gli racconta di aver visto Megan baciare sulla terrazza di casa un altro uomo, Kamal Abdic. Ma Rachel è spettatrice o responsabile di ciò che è accaduto a Megan?. Quel giorno, completamente ubriaca, si era recata nel quartiere, seppur diffidata dall’avvicinarsi ad Anna ed a sua figlia. Ma non ha memoria dell’accaduto.
La brava Emily Blunt, imbruttita e spenta, sorregge questo giallo che tenta la carta del thriller tradizionale. Ma il film ha un ritmo sbilanciato, reso tale dalla mediocre regia di Tate Taylor. Fosse stato diretto da un Denis Villeneuve (Prisoners), avrebbe reso giustizia agli intrecci dei personaggi ed alle figure femminili che sono il plot della storia stessa. Le tre donne sono invece figure poco più che bidimensionali, e soltanto la bravura della Blunt riesce in parte a sottrarre il suo personaggio alla piattezza.
- Nella prima parte il film si adagia sulla dolorosa confusione mentale della protagonista, ma il finale giunge precipitoso e approssimativo. Sembra che il regista abbia sentito la necessità di sciogliere l’intrigo alla svelta, senza badare alla cura del ritmo narrativo. I ruoli maschili sono ridotti ad abbozzi, quelli femminili a vittime di un maschilista senza sfumature. Un vero peccato, perché il bestseller da cui è tratto il film avrebbe potuto regalare allo spettatore molto di più di una semplice cronaca di provincia. Da notare la livida e azzeccata fotografia autunnale di Charlotte Bruus Christensen e le musiche di Danny Elfman.