Quando pensiamo al cinema di lingua cinese, pensiamo a film epici, a film d’azione ed arti marziali; pensiamo a Zhang Yimou o al cinema commerciale hongkongese di Tsui Hark, Ringo Lam o Johnnie To, alcuni pensano alla delicatezza di Wong Kar-wai. Tuttavia, questo cinema ha molto di più da offrire, talvolta ha qualcosa da mostrare che si distacca dalla straordinarietà e dalla spettacolarità cinematografiche. Già parlando di Wong Kar-wai e del suo capolavoro, In the Mood for Love, avevamo accennato a quella che avevamo chiamato “eleganza dell’ordinario”. Insieme a Wong, uno dei massimi poeti in lingua cinese di questa particolare eleganza è un regista appartenente alla cosiddetta “sesta generazione” del cinema della Cina, un omino minuto che riesce ad imporre nella settima arte il suo particolarissimo sguardo sulla triste realtà del proprio Paese, ponendosi sia in una posizione estremamente critica ma anche, al tempo stesso, innamorata della Cina: stiamo parlando di Jia Zhang-ke. Il suo è un cinema complicato, non indirizzato al grande pubblico, nonostante una più recente svolta che lo avvicina ad un panorama più commerciale, pur non rientrando del tutto entro i suoi confini. È un cinema fortemente cinese, distante da quello occidentale. Sebbene sia così lontano da ciò che normalmente guardiamo, l’esperienza del suo cinema in un certo senso può arrivare a cambiare lo spettatore dell’Ovest, avvicinandolo ad una sensibilità a lui estranea. Questo articolo si pone l’obiettivo non di essere una monografia su Jia Zhang-ke ma una breve guida per la scoperta di questo straordinario regista, un consiglio per avvicinarsi e, si spera, appassionarsi ad uno dei più importanti autori della Cina contemporanea. Vi sono percorsi per addentrarsi nel cinema di Jia: il primo, quello che consigliamo più vivamente, è la visione in ordine cronologico delle sue opere, in modo da assistere all’evoluzione del suo stile, che si fa via via sempre più raffinato; il secondo, invece, è la visione dei suoi ultimi film, più vicini, come detto, ad uno stile commerciale (senza, però, essere realmente e pienamente commerciali), in modo da abituarsi al suo stile registico, per poi immergersi nelle sue opere più dense, profonde e, perché no, ostiche.
Prima di illustrare un “percorso” ideale, però, è bene descrivere nel modo più semplice ma soddisfacente possibile lo stile di Jia Zhang-ke. Il suo è un cinema che si colloca in un contesto povero, spesso e volentieri, profondamente legato alla piccolezza (non fisica) dell’uomo cinese ma anche un cinema ampissimo, che abbraccia la Cina con amore: grandangoli che racchiudono l’intera Cina, piani-sequenza che si rifiutano di frammentare il Paese ed il suo popolo, lunghi silenzi che riflettono la sterilità interiore dell’essere umano. Il cinema di Jia è molto vicino ad uno stile documentaristico, tanto che ha anche realizzato dei documentari veri e propri che, stilisticamente, sono molto simili ai suoi film di finzione e che un film di finzione, 24 City, è girato come un documentario. Jia danza sempre su quel sottilissimo filo che separa fiction e realtà, danza leggiadro e libero, leggero e delicato come una piuma. Vi sono immagini che ricorrono di frequente durante l’intera produzione del regista, quasi come un’ossessione: la più importante è quella delle macerie di case e strutture distrutte per costruire altro. Queste macerie sono un simbolo estremamente potente che si fa veicolo della più feroce, seppur sempre pacata, critica che Jia Zhang-ke muove alla propria Patria: la sfrenata demolizione del passato che rende incerto il presente, nell’attesa di un futuro ignoto che mai giungerà. Mai, o quasi mai, infatti le nuove costruzioni vengono ultimate ma le macerie sono sempre dominate da gru ed altri strumenti edili: la Cina è in costante divenire e, proprio per questo motivo, è un Paese instabile, sembra voler dirci Jia. E, in quanto instabile, è senza identità. Soprattutto i giovani la ricercano nella superficialità e nell’apparenza occidentale: essi, infatti, guardano spesso agli Stati Uniti con ammirazione, contribuendo, così, allo svuotamento d’identità della Cina. La tendenza eccessivamente esterofila, riferita soprattutto all’America ma non solo, della gioventù cinese è una delle ragioni, dunque, dell’instabilità del Paese e del suo futuro. E, così, vediamo dei giovani ballare il flamenco davanti ad un dipinto di Mao, incuranti del passato che esso rappresenta, oppure guardano un film straniero in un cinema nel cui ingresso sono appesi i ritratti di Stalin e Lenin, in Platform: queste due scene semplici presenti nel secondo film del regista, datato 2000, sono la perfetta estrinsecazione di uno dei temi principali della produzione di Jia Zhang-ke, ovvero la costante lotta intestina tra la occidentalizzazione (o, in generale, la “esterizzazione”) della Cina ed i valori del comunismo/maoismo sui quali il Paese si regge.
Dunque, da dove iniziare ad approfondire il cinema di Jia? Come detto poco sopra, vi sono due percorsi ideali. Quello più fortemente raccomandato, ovvero quello della visione dei suoi film in ordine cronologico, non necessita di precisazioni o spiegazioni, poiché, come è logico che sia, permette un’esplorazione del suo cinema osservandone l’evoluzione e tutti i piccoli cambiamenti che hanno caratterizzato la carriera del regista. Questa opzione, tuttavia, potrebbe risultare un po’ difficile da seguire, almeno all’inizio, perché i primi film di Jia Zhang-ke sono estremamente distanti dalla sensibilità occidentale, ritraendo una Cina alla quale non siamo abituati. Film come Xiao Wu (1997), Platform (2000) e Unknown Pleasures (2002) ci risultano estranei, quasi come se provenissero da un pianeta differente, perché sono estremamente debitori al neorealismo italiano e, come questo era il riflesso dei problemi dell’Italia povera ed essendo quindi difficilmente comprensibile per uno spettatore straniero, così il cinema di Jia è una fotografia popolare della Cina che si rende facilmente comprensibile solo da chi quella realtà la conosce bene.
Per chi, invece, preferisse cominciare da film un po’ più semplici e vicini alla nostra sensibilità, allora la scelta migliore è quella di approcciarsi inizialmente ai suoi ultimi film, i quali, pur mantenendo l’impronta stilistica propria dell’intera filmografia di Jia Zhang-ke, hanno degli elementi che li rendono più avvicinabili. Proveremo, dunque, a proporre tre titoli fondamentali per cominciare questo percorso, nella speranza di riuscire a farvi appassionare ad uno dei più importanti autori del cinema orientale (e non solo) contemporaneo. Il primo titolo che segnaliamo è Al di là delle Montagne, l’ultimo film realizzato da Jia (in effetti, il penultimo, considerando Ash is the Purest White, presentato a Cannes quest’anno). Si tratta di un’opera delicata che presenta molte delle peculiarità tipiche dello stile di Jia, applicate ad una storia dai connotati leggermente più commerciali rispetto ai suoi grandi film del passato: assistiamo, così, alla più esplicita estrinsecazione del processo di “esterizzazione” della Cina, che attraversa un ampio arco temporale, attraverso il dramma di tre persone che desiderano evadere dalla propria città natale, tra intrecci amorosi e familiari nei quali lo spettatore si identifica facilmente poiché il Jia Zhang-ke degli anni ’10 ha uno sguardo più internazionale ed universale.
Il secondo passo da muovere su questo percorso è Still Life, che chi sta scrivendo considera il capolavoro del regista. Si tratta di uno dei film più famosi di Jia ed a ragione: è una meravigliosa e delicatissima riflessione, come accade quasi sempre nell’opera del regista cinese, sul rapporto con il passato. È la storia di un uomo che torna nel villaggio che aveva abbandonato tempo prima alla ricerca della moglie che non vede da oltre dieci anni, scoprendo che, però, quello stesso villaggio è stato evacuato per essere sommerso da un fiume; allo stesso modo, una donna torna a cercare il marito, che non vede da diverso tempo, solo per chiedergli il divorzio. Il passato ai quali i due ritornano, è un passato dal quale ci si vuole allontanare e che si vuole dimenticare oppure un passato irraggiungibile: è ciò che accade, secondo la visione di Jia Zhang-ke, al popolo cinese, che ha un rapporto conflittuale con il proprio passato, come più volte abbiamo ribadito nel corso del presente articolo.
Il terzo step, per concludere, è il film di debutto di questo meraviglioso regista, Xiao Wu. Un film estremamente legato alla stagione del neorealismo italiano, i suoi attori sono non professionisti ed i temi trattati sono fortemente legati al popolo povero, riflettendo una realtà raramente trattata dal cinema tradizionale cinese. Si tratta di un’opera fondamentale per la storia del cinema contemporaneo del Paese, poiché appartiene a quel gruppo di opere che diedero l’inizio a produzioni indipendenti che avevano lo scopo di raccontare al pubblico ciò che gli era sempre stato nascosto. Anche Pickpocket di Robert Bresson è un’importante fonte d’ispirazione per questo film (il cui titolo internazionale è proprio Pickpocket): entrambi, infatti, raccontano di un ladruncolo che si affida a furtarelli per sopravvivere e mettono in mostra il dramma dell’esistenza di chi deve lottare per sopravvivere.
Jia Zhang-ke è uno di quegli autori che possono plasmare la sensibilità dello spettatore che, fino a poco prima, era ignaro della loro esistenza o che, semplicemente, non aveva mai avuto la curiosità di approfondirli. È il classico esempio di regista, potremmo dire, intimo: non solo perché realizza film “intimi” ma perché riesce a sfiorare il pubblico nei suoi angoli più profondi, portandolo a riflettere su temi che dal microcosmo, dal particolare del contesto filmico in cui vengono affrontati si allargano ed espandono, raggiungendo il macrocosmo dell’universalità. Infatti, se è vero che i film di Jia raccontano spesso del rapporto passato-presente-futuro della Cina e dell’”esterizzazione” del proprio Paese, è altrettanto vero che le riflessioni condotte dal regista possono essere applicate al più ampio contesto dell’intera umanità. Perché l’uomo cinese, in fondo, non è così diverso dall’uomo italiano, francese o messicano.