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Il Club – La casa del peccato (2015)

 “E Dio vide che la luce era cosa buona, e separò la luce dalle tenebre”

Genesi 1:4

I membri del Club sono quattro sacerdoti e una donna che vivono insieme in una casa isolata in una plumbea città sulla costa cilena. Già dalle atmosfere capiamo di essere ai confini del mondo. Lontani dalle tentazioni, quanto dalla vergogna.

La Boca è uno spettrale ricovero per uomini e donne che hanno un passato da espiare. Ognuno col proprio peccato. Pedofilia, mercimonio di minori, copertura dei crimini dell’esercito durante la dittatura e quanto di più terribile possa commettere un uomo di fede. Anzi, un uomo. Una prigione isolata e grigia tenuta lontano dai riflettori, dalla luce. Appunto le tenebre. Quando Sandokan, un povero uomo, violentato in età adolescenziale da padre Lazcano, inizia a presentarsi ogni giorno davanti alla casa dei sacerdoti, come un tarlo che vuole sfinire le residue forze dell’uomo di Chiesa, l’ex aguzzino decide di farla finita e spararsi proprio sotto gli occhi della sua vittima. Le alte sfere decidono allora di inviare a La Boca un tale Padre Garcia, gesuita e psicologo deciso di fare chiarezza sull’accaduto.

Un film sedato e manicheo quello del regista cileno Pablo Larraín, fulgido esempio di un cinema di disumano e a volte insostenibile rigore formale, lontano dall’indulgenza della politica militante di altre sue prove a partire da Tony Manero.

 

La foschia che circonda La Boca permea inesorabilmente anche all’interno dell’abitazione dei peccatori. O forse il contrario. La fotografia di Sergio Armstrong, fa il resto. A differenza di No – I giorni dell’arcobaleno e del successivo Neruda, Il Club non strizza l’occhio e non viene solleticato dalle tentazioni didascaliche delle sirene hollywoodiane. Quelle ammalieranno (ma senza riuscirci) il regista cileno solo nel 2016 quando Larraín si concederà il suo primo film americano, Jackie, andando a scomodare la vittima/vedova per eccellenza della storia politica statunitense Jacqueline Bouvier Kennedy.

Perchè di vittime e di carnefici si parla anche in questa crepuscolare pièce. Un claustrofobico giro di vite, orrido e privo di redenzione. Come un depalmiano gioco di specchi e inversamente ai piani d’ascolto alla Haneke, qui il dolore è proprio sul piano frontale, senza possibilità di concessioni, pietismi e pietà. La mdp indaga scrupolosamente con piani e primissimi piani, le colpe, fustigando i sacerdoti. Lo fa in una maniera tale da incoraggiare quasi lo spettatore ad empatizzare con il male. Ma è solo un’illusione, quando la pellicola si chiude con il noto passo del Padre Nostro: “Dona a noi la pace”.

Ma c’è di più. Larrain racconta piccole storie di piccoli uomini approfittando del local per pensare al global e offrire all’intera nazione cilena la possibilità di espiare le proprie colpe. Vis-à-vis con il passato collettivo di un paese intero. E in questo Larrain non sbaglia un colpo, confezionando una pellicola che smuove arcaiche responsabilità politiche di un paese ammaestrato e addomesticato come il cane che gira intorno nella scena iniziale del film.

La grandezza del cinema di Larraín è anche il suo stesso limite.

Un cinema libero ma non anarchico, volto alla rigorosa ricerca del focus, ad una francescana e ligia ricerca del tema, senza se e senza ma. Un binario rigido che non viene mai scardinato, ma che riesce sempre a condurci nel miocardio esegetico dei suoi film. Il Club necessita di un attento processo di destrutturazione, dalla prima inquadratura all’ultima e di una contestualizzazione socio politica per meglio comprendere il significato veicolato dall’autore.

L’ermeneutica di una conflittualità umana personale, tanto quanto collettiva. Proprio perché il mondo tutto, non solo La Boca dell’inferno, si divide in vittime e carnefici, ed è bene essere certi a quale delle due categorie si appartiene.

Luce o tenebre.

 

Recensione a cura di Giuseppe Silipo