“Il mio nome è Florentina Hubaldo. Sono nata ad Antipolo. Ma prima che compissi 10 anni, ci trasferimmo qui a Bicol. In quel periodo, in circostanze inspiegabili, mia madre morì. Da allora mio padre diventò crudele con me e con mio nonno. Era molto crudele. È sempre ubriaco. Mi picchia. Mi sbatte forte la testa contro il muro, mi schiaccia la faccia nel fango, mi fa male la testa, mi fa male tutto il corpo.”
Le deboli braccia di una donna abusata e maltrattata dal padre, dalla vita, una donna in preda alla più truce e profonda disperazione, Florentina Hubaldo, si tendono verso lo spettatore, implora aiuto. Noi, pubblico onnisciente, entità quasi divina che solitamente si pone al di sopra dell’universo filmico, proprio noi ci sentiamo impotenti, ci sentiamo inutili, ci sentiamo vigliacchi; noi vorremmo essere lì con lei, immersi in quella natura incontaminata, non più sinonimo di bellezza ma simbolo di prigionia, vorremmo offrirle una spalla sulla quale piangere, vorremmo aiutarla a fuggire e nascondersi dal folle padre, che la “noleggia” allo stupratore di turno per cinquemila pesos filippini (meno di 80 euro), che la tiene legata ad un letto, che la picchia.
Fiorentina lotta. Lotta per sopravvivere alla disperazione, al dolore, al padre, lotta per non dimenticare, per non lasciare che la memoria, la sua memoria, la memoria delle Filippine, svanisca nell’oblio. Per quanto doloroso sia il ricordo, Florentina non vuole, non può e non deve dimenticare: come un mantra, ripete a sé stessa e allo spettatore il proprio nome, la propria biografia (o forse sarebbe meglio dire agiografia). Ad ogni ripetizione, il processo di identificazione dello spettatore con la donna si fa sempre più pesante ed prepotente. Abbiamo paura ad empatizzare con lei, non vorremmo vivere ciò che vive lei. Eppure, volenti o nolenti, lo facciamo, il nostro animo e quello di Florentina si fondono e sulla nostra schiena, sulle nostre braccia, in tutto il nostro corpo violenti brividi si propagano come un terremoto devastante il cui epicentro è situato nel nostro cuore distrutto.
Il cinema “primitivo” di Lav Diaz non lascia scampo ed in queste sei ore ammalia e tormenta con sequenze da incubo. Il tempo, sempiterno protagonista dei film del regista filippino, scorre senza che ce ne accorgiamo, mentre pugnala la nostra anima e sparge del sale sulle ferite. Tempus edax rerum, dicevano i latini. Il tempo è divoratore di ogni cosa. Ed è esattamente ciò che fa in questo Capolavoro, con la “c” maiuscola: divora Florentina, divora la sua vita, divora la sua memoria, divora i suoi figli mai nati, ad eccezione di uno, una bambina di nome Lolita, divora lo spettatore, divora la nostra mente, divora il nostro cuore. Lo fa per circa cinque ore e mezza. Fino alla sequenza finale, un unico, eterno, infinito, struggente, agghiacciante, deprimente, tristissimo, crudo, tenero, angosciante piano sequenza di circa mezz’ora durante il quale resta solo lei, solo Florentina, che per tre volte ripete la propria agiografia, ogni volta in modo più disturbante della precedente. Nelle parole della protagonista c’è paura ma non odio per il padre. I màrtiri non odiano.
Fiorentina cerca costantemente un contatto con noi ma lei è imprigionata in quella piccola stanza o, al massimo, in quella foresta filippina, in quell’universo cinematografico appena oltre lo schermo. O forse siamo noi ad essere imprigionati al di qua dello stesso?