È doloroso per l’uomo vedere questo, perché egli si pavoneggia della sua umanità di fronte all’animale e, nonostante ciò, osserva con invidia la sua felicità, perché questo solo egli desidera: vivere come l’animale né annoiato né soggetto al dolore, e lo desidera vanamente, perché non lo vuole come l’animale. […]
Anabel è un’anziana donna che conduce una lussuosa vita insieme a suo marito, un ricco uomo d’affari argentino e a Greta, una giovane e ribelle figlia. Tutto sembra andare per il meglio, ovattato dalla noblesse oblige delle cene di gala, organizzate dalla famiglia. Fin quando un giorno la donna viene raggiunta da Chiara, la sua prima figlia, avuta anni prima ed abbandonata quando aveva appena 8 anni. La ragazza ormai 40enne non vuole soldi, né favori, solo passare 10 giorni con la madre, nella sua casa natia, al confine tra la Francia e la Spagna.
La citazione iniziale è quella con cui si apre il primo capitolo del saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, scritto e pubblicato da Friedrich Nietzsche nel 1874. Il filosofo intende affrontare nella sua opera, il concetto stesso di storia, intesa non solo come conoscenza del passato, ma anche come ricordo e memoria.
E’ la cosiddetta “malattia storica”, “l’eccesso storico” , consistente in una eccessiva mistificazione del passato che conduce inevitabilmente ad una paralisi dell’azione sul presente. In questo Eterna Domenica, ma è molto più significativo il titolo originale “La enfermedad del domingo”, quanto il saggio del filosofo tedesco, operano un paragone tra la bestia e l’uomo.
L’animale, privo di memoria e ricordi, non avverte su di sé il pesante fardello del passato, delle proprie scelte, dei propri errori.
La pellicola prova, a volte ad intraprendere altre tortuose direzioni, ma alla fine, ogni cosa, riconduce la critica del testo al concetto di memoria nietzchiana e alla dolorosa sofferenza nell’affrontare il passato irrisolto.
Emblematica in tal senso, la scena in cui Anabel fa visita al cimitero.
Ora, se fossi un avvocato difensore non potrei che dar ragione al pubblico ministero ed ammettere la “lentezza” del film di Ramòn Salazar, ma questa è la scelta registica. Prendersi il suo suo spazio. Lasciare allo spettatore il tempo di assoggettarsi all’inquadratura e alle conseguenze psicologiche e narrative del momento.
D’altronde sarebbe quasi uno spreco rinunciare a vantarsi di una fotografia così satura e intensa, immersa nella luce dei Pirenei.
“È facile ritrovare un vanitoso” dice Chiara che deve il suo nome alla figlia “dell’attore che lavorava sempre con Fellini, quello con gli occhiali da sole neri”.
Gli attori, o meglio il dualismo madre/figlia resta ottimamente in underacting per l’intero film e questo crea un inevitabile effetto doppler rispetto alle intenzioni del regista.
Qualche scena onirica poi, approfondisce il rapporto tra uomo e natura. A partire dalla prima inquadratura in cui i nomi delle attrici appaiono su due alberi maturi, solidi, ormai cresciuti, che si sfiorano, ma che crescono separatamente. Sul finale poi il meraviglioso bagno nelle acque del lago, delle due donne nude. Una catarsi amniotica. Forse il ricongiungimento.
C’è poi un ultimo segreto da svelare, una frase riservata solo alle due protagoniste. Un breve dialogo soffiato tra i capelli dal vento freddo dei Pirenei. Un “moment privé” che ricorda la frase sussurrata in Lost in Traslation o quella in In the Mood for Love. Qualcosa che possiamo intuire, ma non c’è dato necessariamente sapere. Quando si abbandona il passato e si intuisce il futuro