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Dogman – La Recensione

Non c’è un briciolo di dignità in questa Italia distopica e nei suoi personaggi che vivono luoghi post apocalittici abbandonati da Dio o chi per lui. Non c’è dignità, ma c’è il rispetto reciproco e questa è l’unica cosa che conta. L’unica moneta che valga qualcosa.

Poi c’è un omuncolo. Un “vorrei ma non posso” che fa il toelettatore per cani. Persino quello sembra un lavoro troppo al di sopra delle sue possibilità. Ma a Marcello questo basta, soprattutto in un contesto in cui il “più pulito c’ha la rogna”. Chi ruba, chi spaccia, chi strozza oro. Al toelettatore bastano i suoi cani, che chiama affettuosamente “amore” e una figlia, alla quale vuole un mondo di bene, avuta da una moglie dalla quale ha divorziato. Il migliore amico di Marcello però si chiama Simoncino, è un ex pugile, cocainomane e violento. Simoncino lo vessa, lo sfrutta, approfitta della bontà d’animo di Marcello. Un giorno però Marcello finisce a Rebibbia per aver difeso il suo amico delinquente e allora alza la testa . Si fa valere e pretende vendetta.

E’ una favola nera questo Dogman.

I toni sono quelli che Matteo Garrone aveva già portato al cinema con L’imbalsamatore e con Gomorra. Il regista romano prende spunto da un fatto di cronaca che risale al 1988, un omicidio cruento avvenuto per mano di Pietro De Negri, detto “er canaro”. Ma Garrone rielabora la storia, i contenuti, la sostanza, la forma, la morale, il finale, finanche l’ambientazione, trasformando la cronaca passata, in teatro contemporaneo. Più nero e granguignolesco dei fatti reali. L’autore catapulta lo spettatore in una fastidiosa realtà moderna, archetipica, pasoliniana, dalla quale non c’è fuga o redenzione.

A dar vita ai personaggi ci sono poi attori/non attori che riempiono lo schermo con laida fisicità e movenze primitive, che Garrone ha rubato alle recenti film/serie Crime Capitoline come Romanzo Criminale e Suburra. Tra loro spiccano Adamo Dionisi, ex capotifoso del gruppo di ultras “gli Irriducibili” laziali, poi diventato il boss zingaro Manfredi Anacleti per Stefano Sollima. Francesco Acquaroli, Mirko Frezza e il poliziotto Aniello Arena (già in Reality dello stesso Garrone). Ovviamente i protagonisti però sono loro: Edoardo Pesce e Marcello Fonte al quale il regista lascia ampio margine d’improvvisazione. Per rendere tutto autentico, sincero.

Poi c’è il fil rouge tra Castel Volturno e la Magliana che funziona così tanto da non capire, o tal punto da non voler sapere, dove realmente siamo.

Tirando le somme nel 2018 Matteo Garrone ha fatto un film hype stile Tarantino, diretto però dai fratelli Dardenne.

Senza il voyeurismo per la violenza però. L’esegesi della pellicola non è da ricercare infatti nel sangue gratuito o nella sete di vendetta, bensì nell’accettazione sociale, nell’identità dell’individuo che vive ai margini della società. Perché siamo soli come cani e come cani moriamo, soprattutto nel degrado della periferia.

Quando la dignità, si, proprio quella, è l’unica cosa che conta.

Recensione a cura di Giuseppe Silipo