Home Speciale Approfondimenti Cos’è il cinema? Episodio 2: i movimenti di macchina

Cos’è il cinema? Episodio 2: i movimenti di macchina

Il primo piano di un ragazzo sogghignante, il suo sguardo è inquietante. Ci allontaniamo molto lentamente e, a poco a poco, riusciamo a vedere ciò che circonda quel personaggio che, a giudicare dalla sua espressione, non è un esempio da seguire. Lo vediamo seduto su un divanetto, accanto ai suoi amici, vestiti come lui, completamente bianchi, con stivali e cappello nero. Davanti a loro, un tavolino con la forma di due donne nude. E dietro di loro, delle scritte sul muro: Moloko vellocet, Moloko Synthemesc, Moloko Plus. Continuiamo ad indietreggiare, i quattro compagni sempre più lontani, e vediamo altri tavolini simili, altri clienti che non hanno l’aria di essere molto lucidi.

Quello appena descritto è uno degli incipit più famosi e belli della storia del cinema, quello di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, che serve per introdurre l’argomento di questo episodio di “Cos’è il cinema?”: i movimenti di macchina, che, come per i vari campi e piani, hanno un ruolo fondamentale nel veicolare un messaggio, nel creare una certa atmosfera e nel narrare una storia. Potremmo suddividere, per comodità, i movimenti in due categorie: quelli che definisco “movimenti statici” e “movimenti dinamici”. I primi sono quelli durante i quali la macchina da presa non cambia la propria posizione nello spazio, mentre i secondi sono quelli all’inizio dei quali la macchina da presa si trova in un punto X nello spazio e alla fine in un punto Y. Cominciamo a vedere i primi.

PANORAMICA

La macchina da presa ruota attorno ad uno dei suoi assi senza modificare la sua locazione spaziale, come se noi, stando fermi, girassimo la testa in orizzontale o in verticale. La sua funzione principale è quella di descrivere un ambiente o per seguire un’azione rimanendo distaccati o, ancora, per mostrare un elemento della scena nascosto. Un bellissimo esempio di sequenza che si basa quasi soltanto su panoramiche verticali ed orizzontali è questo, tratto da Såsom i en spegel, “Come in uno specchio”, di Ingmar Bergman. In questa scena vediamo Martin (Max Von Sydow) che sta cercando la moglie Karin (Harriet Andersson), uscita da poco da un ospedale psichiatrico, per darle una medicina e, non trovandola, inizia a vagare per casa allertato. Incontra David, padre di Karin, e gli chiede se abbia visto la ragazza. Non sapendo nulla, anche David la cerca ed i due la trovano nel piano superiore della casa, mentre è intenta a fissare il nulla, attendendo l’arrivo di Dio. L’intera sequenza si regge su panoramiche che seguono Martin senza, però, pedinarlo, descrivendo l’azione in modo piuttosto freddo, facendo percepire allo spettatore l’ansia del momento ma non rendendolo partecipe dell’agitazione del personaggio di Von Sydow. Più avanti vediamo Karin pregare in ginocchio e la camera esegue una brevissima panoramica verso destra, lasciandoci vedere l’ombra di David, in pieno stile espressionista, quasi una rimembranza del bellissimo Nosferatu di Murnau, minacciosa, presagio di qualcosa di terribile per la povera Karin. E ben presto, infatti, vediamo la sagoma di un elicottero fuori dalla finestra e la ragazza ha un crollo psicologico. L’estrema tensione della scena viene esponenzialmente aumentata dalla regia asciutta e rigida di Bergman.

Ingmar Bergman.

CARRELLATA OTTICA/ZOOM

Non è un vero e proprio movimento di macchina, poiché a muoversi è l’obbiettivo, che esegue uno zoom in avanti o indietro, appiattendo l’immagine e rendendola artificiale. Si tratta di una tecnica molto spesso usata nel cinema classico e lentamente abbandonata con l’evoluzione della tecnologia, fino a farla cadere quasi in disuso nel cinema contemporaneo, tanto che, oggi, lo zoom risulta quasi sgradevole e pacchiano agli occhi di molti. Un uso molto frequente delle carrellate ottiche si fece nella fantastica stagione del cinema di genere italiano tra gli anni ’60 e ’70, in particolare Mario Bava si rivelò un vero e proprio maestro nell’uso di questo movimento, rendendolo un proprio marchio di fabbrica. Molti sono gli usi che se ne possono fare: potrebbe essere un mezzo di esplorazione dello spazio senza immergere lo spettatore nell’ambiente, potrebbe essere sfruttato per “colpire” lo spettatore con immagini forti e zoomate rapide o per rivelare elementi fuori campo, nel caso di un zoom out, o lontani in secondo piano, se si tratta di uno zoom in. Vediamo, ad esempio, questa bellissima scena tratta dall’episodio “La goccia d’acqua” de I tre volti della paura, del 1963. Vediamo la protagonista, che ha rubato l’anello ad una medium appena morta, entrare in casa propria con il fiatone, è in ansia. Apre la porta della camera e sul suo letto vede il corpo della medium che la fissa. Un violento zoom in. Va in sala e la vede su una sedia. Un altro violento zoom in. La funzione di queste carrellate è paragonabile a quella dei jump scare (spero possiate perdonare questo atroce accostamento) che infestano il cinema horror moderno, con la differenza che gli zoom del film di Bava giungono a coronamento della costruzione di un’atmosfera ansiogena e ricca di tensione, senza stuprare le orecchie dello spettatore.

Mario Bava sul set de “I tre volti della paura”.

CARRELLATA

Primo dei movimenti di macchina “dinamici” che vediamo, la carrellata prevede lo spostamento della macchina da presa su dei binari per esplorare l’ambiente immergendo lo spettatore, a differenza di quanto accade con lo zoom, nella scena, avvicinandolo agli attori e alla scenografia (sebbene possa essere utilizzato con distacco come una panoramica, tenendo la macchina lontana dall’azione e muovendola lateralmente). La scena descritta all’inizio di questo articolo, è uno dei più famosi esempi di carrellate della storia: seguite questo link per vederlo. Molto più coinvolgente a livello emotivo e narrativo dei due movimenti precedentemente descritti , la carrellata può essere unita ad essi per ottenere movimenti ed effetti meravigliosi, come il cosiddetto effetto Vertigo, che prende il proprio nome dal film di Alfred Hitchcock La donna che visse due volte (Vertigo, il titolo originale), nel quale il regista inglese unisce una carrellata in avanti ed uno zoom indietro, il cui risultato è un effetto straniante che raffigura il senso di vertigine del protagonista. Il primo caso di questa tecnica, nel film di Hitchcock, potete vederlo qui, mentre un altro celeberrimo esempio è questo, usato in Lo squalo di Steven Spielberg, nella scena in cui Martin Brody, il poliziotto protagonista, assiste al primo attacco dello squalo.

Un carrello nel backstage di “The wolf of Wall Street” di Martin Scorsese.

STEADICAM

Evoluzione della carrellata, la steadicam (o steadycam) è il frutto di continue sperimentazioni di Garrett Brown e permette di muovere la camera con estrema libertà (che manca in parte alla carrellata) e fluidità la camera, realizzando riprese estremamente dinamiche impensabili fino a circa 40 anni fa. Brown già nel ’76 aveva realizzato steadycam piuttosto primitive (chiamate Brown stabilizer) per film come Rocky e Il maratoneta ma è solo nel 1980, con Shining di Kubrick, che nasce la steadycam come la conosciamo oggi. Le scene di Danny sul triciclo che corre per i corridoi claustrofobici dell’Overlook Hotel sono un bellissimo esempio di steadycam, che pedina il ragazzino trasformando lo spettatore nell’entità malevola che infesta l’hotel. Con il passare del tempo, questa tecnologia è diventata sempre più popolare fino a diventare uno strumento indispensabile per qualsiasi regista: un altro bellissimo esempio è il seguente, tratto da Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, uno dei più bei piani sequenza (marchio di fabbrica del cinema scorsesiano)della storia.

Stanley Kubrick e Garrett Brown sul set di Shining: il primo esempio di steadycam moderna.

Quelli elencati in questo articolo sono solo alcuni dei principali movimenti di macchina, quelli fondamentali e più diffusi. Tuttavia, si possono unire tra di loro per creare effetti fantastici e, talvolta, innovativi, come nel caso del summenzionato effetto Vertigo. Per oggi è tutto e vi lascio con un’anticipazione del prossimo episodio: parleremo di piano sequenza, tornando a parlare un po’ di filosofia del cinema, dopo due episodi più tecnici come questo e lo scorso.