“Una goccia, più una goccia, fanno una goccia più grande, non due”.
Il nuovo film di Pawlikowski si apre e si chiude con un meraviglioso omaggio visivo al maestro sovietico Tarkovskij. Non è un caso che la Chiesa dove nasce e si “consacra” l’unione tra i due protagonisti della vicenda sia molto simile alla suggestiva Abbazia di San Galgano, usata in Nostalghia. Citazione già colta da Iñárritu in Revenant.
E di nostalgia ce n’è veramente tanta in questo affascinante mélo, in questa storia d’amore tra due personaggi magnetici e tormentati, ma soprattutto divisi da una cortina di ferro e dagli eventi storici.
Polonia, 1949. Tutto ha inizio qui, con la creazione di una compagnia di ballo e di canto. Per volontà del governo filosovietico, dagli sperduti villaggi innevati, vengono reclutati giovani corpi e voci per fare propaganda soprattutto all’estero. Ed è così che si conoscono Zuzanna “Zula” Lichoń (una bellissima Joanna Kulig) e Wiktor (Tomasz Kot) pianista ed etnomusicologo. E’ amore a prima vista, passione e sofferenza. Lui vuole fuggire e arrivato a Berlino Est si da appuntamento con Zula che però non si presenta. E’ l’inizio di un trovarsi e perdersi che dura fino alla metà degli anni ’60, girovagando tra la Francia, la Jugoslavia e la Polonia.
Si passa dai canti popolari della tradizione folk dell’Est Europa, alle suggestioni bohémien dei jazzisti parigini e addirittura la nostrana 24 Mila Baci di Celentano. Fino al termine di questo viaggio e alla frase “Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì”. Uno degli epiloghi più belli visti al cinema negli ultimi anni. In pieno stile Kaurismaki.
Ancora una volta l’austerità di Pawlikowski parte dalla forma, un essenziale b/n costretto dall’aspect ratio 1:1.37. Cinema di una volta che fa innamorare e piangere ma senza l’enfasi zuccherina dei fasti hollywodiani. Non ne ha bisogno. La sceneggiatura non concede nulla e non perde un colpo, divisa da dissolvenze in nero che fanno sospirare e dettano i tempi della storia.
Una travolgente storia d’amore, intima, sofisticata, silenziosa tra riflessioni spirituali e politiche (non mancano frecciate al regime comunista). Le redini di Pawlikowski tese, dopo il successo internazionale di Ida, si aggiudicano con Cold War il premio per la miglior regia al 71° Festival di Cannes, oltre alla candidatura ai Premi Oscar.
Per Pawlikowski una prova molto sentita che trova ispirazione (con tanto di dedica finale) dalla vicenda dei genitori che condividono i nomi con i due protagonisti di questo mélo.