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Storia del cinema dell’Estremo Oriente: la New Wave sudcoreana

CAPITOLO 8. IL NUOVO CINEMA SUDCOREANO: PRELUDIO AL SUCCESSO INTERNAZIONALE

Bisognerà aspettare la fine degli anni ’80 per poter trovare una New Wave in Corea del Sud, un periodo in cui la produzione cinematografica nazionale è in forte crisi, subissata da film importati che, nel 1993 raggiungeranno l’85% dei film proiettati. Tuttavia, nel 1985 una nuova legge sul cinema favorisce la nascita di case di produzione indipendenti create dai registi ed attori sudcoreani che, però, ancora faticano ad emergere dall’invasione di pellicole hollywoodiane. Ciò non scoraggia i giovani cineasti e produttori del Paese, “le cui carriere sono però rischiose e incerte, anche se uno spiraglio è forse costituito, verso la fine del secolo, dalla crescente presentazione di film coreani nei festival internazionali” (Adriano Aprà, Cinema sudcoreano, in Storia del cinema mondiale vol. IV, p708). Come accadde in Francia con la Nouvelle Vague, anche i giovani registi sudcoreani hanno spesso iniziato come critici od organizzatori di cineclub, realizzando i propri primi film con mezzi poverissimi, girati in 16mm o in Super8. Costoro non vogliono inserirsi nell’industria cinematografica tradizionale ma preferiscono affidarsi a produttori indipendenti, sancendo l’inizio del nuovo cinema sudcoreano e la fine del monopolio delle major. L’intento della New Wave sudcoreana è quello di portare i film nazionali all’attenzione della critica internazionale, che fino ad ora ha sempre snobbato questa cinematografia, e dell’èlite culturale del Paese, più interessata alla letteratura che al cinema. Questo scopo è stato raggiunto, eseguendo piccoli passi, solo verso la fine del millennio, grazie al lavoro di registi come Lee Chang-dong, Park Chan-wook e Kim Ki-duk.

“Chilsu wa Mansu” di Park Kwang-su

Attorno al 1988, in parallelo all’allentamento della repressione governativa, si ha l’inizio di un cinema caratterizzato da un realismo sociale “attento alle contraddizioni di classe presenti nel Paese” (Dario Tomasi, Il Cinema Asiatico. L’Estremo Oriente, p.131). I due principali esponenti di questo cinema sono Park Kwang-su e Jang Sun-woo, che utilizzano due differenti approcci per raccontare lo stesso mondo: se il primo, infatti, realizza film inclini ad un certo didascalismo, il secondo realizza opere più metaforiche. In generale i nuovi autori come Hah Myung-joong, già attore e poi regista di film come T’ae (The Placenta, 1986), e Bae Yong-kyun (Perché Bodhi Dharma è partito per l’Oriente?, 1989), insieme a Park e Jang, realizzano opere che si occupano di temi nuovi oppure riprendono vecchie tematiche care al cinema sudcoreano trattandole in modo differente, portando, in questo modo, il cinema del Paese a novità linguistiche e tematiche che collocando i registi in una dimensione accostabile a quella della Nouvelle Vague. Non sempre, però, la riflessione e la novità sul cosa dire corrisponde ad una riflessione sul come dirlo. È questo il caso, per esempio, del già citato Park Kwang-su, il quale sente l’urgenza di realizzare pellicole socialmente impegnate non supportate, però, da un comparto tecnico altrettanto innovativo: un esempio è quello del suo film di debutto Chilsu wa Mansu (Chilsu and Mansu, 1988), che racconta delle differenze di classe e dell’eccessiva presenza della cultura americana in Corea del Sud, della minaccia della disoccupazione e dei fantasmi della dittatura, argomenti che fino a poco tempo prima erano tabù nel cinema sudcoreano e che avrebbero di fatto impedito al film di esistere per via della massacrante attività censoria che, grazie alle nuove leggi, ora è meno opprimente.

Accanto all’attività di questi registi, si sviluppa anche un sottobosco di film militanti girati anch’essi in Super8 o in 16mm che vengono fatti circolare e proiettati illegalmente tra i circoli cineclubistici universitari, opere che sfidano le autorità delle quali la più rappresentativa è Pa-op chunya (Notte di lotta sociale, 1990) realizzata dal collettivo Changsang-kotmae. Questi film, tra i quali citiamo anche Shin kyumunul yulmyo (Aprendo i cancelli chiusi della scuola, 1992) di Jang Dong-hung, si pongono come obiettivo quello di mostrare con crudo realismo le repressioni che in questi anni si svolgono, spesso con la partecipazione di manifestanti e scioperanti, come nel caso di Pa-op chunya, che viene girato con la collaborazione di operai in sciopero. Tuttavia, la pulsione per una forma coreana di cinéma veritè di questi cineasti si scontra con i modelli narrativi tradizionali che vengono utilizzati.

“The day a pig fell into the well” di Hong Sang-soo

Purtroppo, molti dei registi che hanno dato vita a questo movimentato periodo del cinema sudcoreano hanno fatto perdere ogni traccia di sé, “o perché non hanno fatto altri film o perché le qualità del primo film non sembrano confermate dai successivi” (Adriano Aprà, “Cinema sudcoreano” in Storia del cinema mondiale vol. IV, p. 711). Tuttavia, esistono alcuni casi in cui registi di questa generazione hanno proseguito in una carriera stilisticamente interessante, pur rimanendo pressoché sconosciuti in Occidente, come Lee Myung-se e Kim Uisok, mentre molta più fortuna ha avuto, per esempio, Hong Sang-soo, che durante la seconda metà degli anni ’90 realizza tre pellicole che narrano storie drammatiche e comiche allo stesso tempo, si focalizzano sulla classe media e sfruttano uno stile minimalista ma profondamente umano. Questi tre film, nell’ordine The day a pig fell into the well (1996), The power of Kangwon Province (1998) e Virgin stripped bare by her bachelors (2000), sono il preludio ad una carriera destinata a brillare sempre di più  e che condurrà Hong ad essere uno dei registi sudcoreani contemporanei più acclamati ed apprezzati in tutto il mondo.