Un “non luogo”, una diversa vita, un posto claustrofobico, umido e putrido, ma nel quale vivere la propria animalesca e sincera pulsione animale.
Una momento di vita, fisico ed emotivo, da cui tener fuori tutta la banalità borghese e il deterioramento passivo del quotidiano. Una rifugio misterioso, lontano dagli occhi indiscreti della gente comune, incapace di comprendere.
Ed infatti non capirono, la pellicola venne accusata di “esasperato pansessualismo fine a se stesso” e ritirata dalle sale. Un’appendice giudiziaria che portò al 29 gennaio del 1976, alla sentenza della Cassazione, che ordinò il rogo del negativo del film, condannando infine il produttore Alberto Grimaldi, il regista Bernardo Bertolucci, lo sceneggiatore Franco Arcalli e l’attore Marlon Brando a due mesi di prigione.
Una delle pagine più oscure della storia del cinema italiano.
Questo e molto altro è Ultimo Tango a Parigi, pellicola manifesto di Bernardo Bertolucci.
Dopo il suicidio della moglie Rosa, il quarantacinquenne americano Paul (Marlon Brando), piange per la strada. E’ un uomo di mezza età, distrutto e sembra incapace di ricominciare.
La prima battuta del film è una bestemmia, un lacerante «Fucking God!» coperto dal rumore autocensorio del treno e una plongée che finisce innalzi al volto dell’uomo.
Sembra introdurci in un mondo maledetto e senza Dio.
Casualmente Paul s’imbatte nella bella 19 enne francese Jeanne (Maria Schneider) in un appartamento in affitto, che i due si trovano a visitare nello stesso momento. Un pied-à-terre che li vedrà, pochi istanti dopo, avvinghiati in un atto di erotismo estremo e passionale. Due perfetti sconosciuti tra i quali nasce una improbabile relazione. Dialoghi frammentati, qualche racconto del passato ma niente nomi e totale libertà sessuale.
“Questo che è il più potente film erotico mai fatto, può rivelarsi il film più liberatorio mai realizzato” disse Pauline Kael. Uno dei più influenti e celebrati critici del mondo e autorevole voce del The New Yorker, loderà inoltre la fotografia di Vittorio Storaro così attenta ad esaltare i colori caldi e l’intimo accompagnamento sonoro del sax di Gato Barbieri.
Prendendo spunto proprio dalle parole della Kael, Ultimo tango a Parigi è dunque, tra le tante cose, un film sulla liberazione.
Psicologica ed emozionale, in qualche maniera primitiva: quella di Paul dai sensi di colpa per il suicidio della moglie e quella di Jeanne dalla ingombrante figura paterna.
I due protagonisti seguono una perfetta parabola simmetrica e opposta. Da una parte troviamo Paul distrutto dal lutto e che trova conforto nel suo machismo greve e violento col quale sodomizza la giovane Jeanne, nutrendosi al contempo della sua linfa vitale. Dall’altra una ingenua ragazzina che si veste già da adulta con un borsalino démodé e che vuole diventare donna, più in fretta possibile. Finirà con Paul regredito in posizione fetale e Jeanne che studia i dettagli per uscirne incolpevole e vittima, ripetendo le parole da dire alla polizia. In fondo ora lei è diventata un’adulta e “gli adulti risolvono tutti i problemi”.
“Cos’è il tango?” ci ricorda il critico Raffaele Meale, “il ballo delle classi popolari che l’aristocrazia fece suo, con un’appropriazione indebita, solo nell’Europa a pochi centimetri dalla Grande Guerra? Nient’altro che un’improvvisazione pulsionale, la presa del potere dell’istinto e dell’animalità di fronte al raziocinio, che pur cerca di tenerlo a bada col suo tempo binario, canonico, ritmato con metronomica precisione. È l’utopia della liberazione dallo schema, il tango. Un’utopia che è già grondante della triste consapevolezza della propria vacuità. E cos’è Parigi, la gran madre che ha svezzato i sospiri del lirismo politico del Novecento, se non la capitale dimessa – New York è il moderno, Berlino il contemporaneo, Tokyo il futuro – di un mondo morente, che ha su di sé il peso castrante del colonialismo e la brezza leggera di un Sessantotto che ha sparigliato le carte, movimentando però forse soprattutto l’aria?”
Tutto questo passionale e decadente “dance me to the end of love”, è filmato da Bertolucci e da Storaro con un’eleganza formale tragica, autunnale e desaturata, un inno alla morte.
Non è un caso che Bertolucci avrebbe voluto intitolare Ultimo tango a Parigi La Petite Mort.
Poi c’è tutto un discorso, per molti pruriginoso, ma in realtà drammatico e indelebile, e che riguarda la scena della violenza ai danni della giovane Maria Schneider, orchestrata da Brando/Bertolucci. La Schneider non si riprese mai da quel ciak e forse una parte di lei morì a terra girando quella scena, molto prima che un tumore se la portasse via a soli 58 anni.
Una storia che deve essere raccontata ma che non potrà mai scalfire il giudizio sulla pellicola più provocatoria e rivoluzionaria del cinema italiano.