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C’è un nemico invisibile a New York: American Horror Story – New York City

Ryan Murphy ormai non ci stupisce più.
Se tocca qualcosa, riesce quasi sempre a trasformarlo in oro, arrivandoci molto vicino in quelle poche volte in cui non ce la fa.
Dopo aver fatto centro con The Watcher e Dahmer, ecco che arriva l’ennesima conferma di un ottimo lavoro, con l’ultima stagione di American Horror Story, intitolata stavolta New York City.

Non ci sono più freaks, mostri, streghe, o la combo vampiri/alieni che avevamo visto in Dobule Feature.
Con New York City assistiamo ad un ritorno ad uno dei temi cari a Murphy, la denuncia sociale.

Siamo nella Grande Mela, negli anni 80′, una di quelle parti del mondo in cui essere gay, era sinonimo di vivere nell’ombra, in bar o in luoghi dimenticati da Dio e nascosti dalla luce, dal mondo esterno.
Figuriamoci quanto questo poteva essere duro per un gay che faceva parte delle forze dell’ordine, come uno dei protagonisti della stagione, Patrick (interpretato da Russell Tovey).

Il detective deve trovare un serial killer, che uccide ragazzi all’interno della comunità gay per realizzare un ambizioso quanto macabro obiettivo.
Ma c’è di più di un serial killer nell’aria.
C’è un altro cattivo.
Un nemico invisibile, un nemico letale, che negli anni 80′, a New York, e non solo purtroppo, stava mietendo innumerevoli vittime, anche a causa dell’insufficienza di soluzioni per arginarne la pericolosità e la sua diffusione.

American horror Story New York City è ambientata negli anni 80′, ma è molto attuale nel trattare ed esporre i due temi fondamentali della stagione, quello della comunità gay e del virus dell’HIV.

A fianco al cast consolidato della serie formato da  Billie Lourd, Denis O’Hare e Leslie Grossman troviamo anche interessanti new entry, come quella di Joe Mantello nei panni del giornalista Gino Barelli.

Murphy riesce molto bene a mostrarci le difficoltà delle comunità gay nell’America degli anni 80′.
Una comunità sempre circondata da pregiudizi e indifferenza e costantemente sotto la presenza di quel maledetto virus, che nelle dieci puntate prende anche le sembianze umane di Big Daddy (ottima trovata questa).

Non mancano nella stagione alcuni episodi che rasentano tecnicamente la perfezione, ben costruiti e ancor meglio diretti, come l’ultimo, a cura, guarda caso, di Jennifer Lynch.
A volte non servono grandi dialoghi o ottime interpretazioni per la riuscita di un episodio.
Bastano scene al limite dell’onirico, e una canzone (in questo caso Radioactivity dei Kraftwerk) per fare centro.