Quando Patricia Highsmith pubblicò “The Price of Salt” (titolo originario di Carol), utilizzando lo pseudonimo di Claire Morgan, era il 1952: ancora lontana dai successi della saga del truffatore
Tom Ripley, erano quelli gli anni del maccartismo e della caccia alle streghe dello spauracchio comunista; gli anni in cui l’omosessualità era vista come una devianza da curare, come una
mancanza assoluta di moralità da parte di chi teneva una condotta del genere.
È in questa atmosfera che si snoda Carol di Todd Haynes, geniale regista di “Io non sono qui” e non nuovo nell’esplorare con occhio edotto il mondo omosessuale (“Lontano dal Paradiso”).
Nell’atmosfera di una Manhattan patinata e raffinata dove si ballano lenti su languidi jazz e si brinda al Presidente Eisenhower, splendente nelle sue decorazioni natalizie o nelle luci dei grandi
magazzini Frankenberg dove la giovane Therese Belivet (Rooney Mara) lavora come commessa.
E dove arriva a stravolgere la vita della ragazza l’elegante Carol Aird (Cate Blanchett): saranno un paio di guanti dimenticati il deus ex machina della situazione, la miccia di un rapporto che nasce nel tempo di uno sguardo perché Carol non è un film di eccessi o di amore urlato, ma di un sentimento che parla senza dire; espresso dagli occhi, dagli sguardi di Therese ogni volta che Carol è in scena e viceversa dalle occhiate fuggevoli di quest’ultima, cariche di consapevolezza e di molto di non detto perché assolutamente non necessario.
In un confronto con il fidanzato Richard (Jake Lacy) Therese non sa spiegare cosa stia succedendo: non lo sa spiegare ma sa e basta, sa che Carol è ormai nella sua vita e questo la porta alla decisione di intraprendere con lei un lungo viaggio on the road che finirà per suggellare l’amore tra le due donne. Ma Carol è nel bel mezzo di un divorzio burrascoso a causa dell’affidamento della figlia Rindy, con il marito Harge (Kyle Chandler) disposto a qualsiasi cosa pur di avere la bambina con sé – o forse, di tornare ad avere con sé la moglie. Ed è a questo punto che la moralità puritana degli anni Cinquanta – ma quanto possiamo dire essere cambiata in questi sessant’anni? – crea una leva, una possibilità: l’omosessualità di Carol è qualcosa di inadatto alla crescita di una bambina e una clausola morale opzionata dagli avvocati dell’uomo porterà alla necessità di comprovare tale condotta.
E qui si sviluppa l’ultima parte del film, nella scelta della donna dilaniata tra la propria natura e la consapevolezza di non poter negarsi, ma allo stesso tempo di scegliere il meglio per la vita della propria figlia. Mentre Therese, incolpevole comprimaria, deve fare i conti con la realizzazione di quanto sta accadendo a Carol ma, soprattutto, di quanto sta accadendo a se stessa.
Haynes, mantenendosi piuttosto fedele al libro, sviluppa la storia in maniera pulita, lineare, affidandosi a scelte registiche pregiate ed a una colonna sonora evocativa, ma in particolare modo
sapendo di poter contare su due attrici straordinarie in grado di riuscire a trasformare ogni gesto, ogni parola in qualcosa di fisicamente palpabile, di quasi sofferto per chi guarda: perché Therese e Carol si amano ma c’è qualcosa di amaro sin dall’inizio, sin dalle premesse poste ma delle quali Carol è ampiamente conscia ( “Sai quello che stai facendo?” le chiede l’ottima Sarah Paulson nei panni dell’amica Abby, con Carol che risponde un disarmante “No, non l’ho mai saputo”).
Rooney Mara (Prix D’interprétation Féminine al Festival di Cannes 2015) e Cate Blanchett (qui anche nelle vesti di produttrice insieme al marito Andrew Upton) compiono un lavoro eccezionale,
aiutate da un cast che sorregge la prova delle due rimanendo però un contorno piacevole e mai dissonante, trasportandoci fino al finale dove di nuovo tutto è racchiuso nella potenza di un solo
lunghissimo sguardo; nessuna parola, proprio come nella prima apparizione di Carol e Therese.