Se molti degli ultimi film greci testimoniano il periodo di crisi del paese ellenico e riflettono tutto ciò in quella del nucleo familiare, quelli di Balabanov sul periodo di transizione della Russia dalla caduta del comunismo all’arrivo di Gorbachov e soci e della Perestroika fanno anche di peggio.
Si perchè qui non è solo la famiglia ad essere mesa in discussione.
E’ la società intera, che negli anni 80’, anni in cui ormai l’Unione Sovietica stava perdendo pezzi del grande blocco comunista che fu non aveva più nulla su cui aggrapparsi.
Il partito, i grandi capi, non erano più quelle autorità forti e di cui aver paura.
Tutto era messo in discussione.
Non c’era più un soggetto forte che indicava la via, e quindi, tutto era lasciato allo sfascio più totale.
Tutto veniva trattato con il classico silenzio russo (quello che accade da noi nessuno lo deve sapere) e ciò che accadeva non aveva veramente limiti all’interno della fantasia umana.
Chiunque può diventare chiunque, tutti possono avere il loro concetto di vita, di amore, di giustizia, ed ognuno ovviamente, agisce solo spinto dai propri istinti.
Perchè venendo a mancare le rigide imposizioni del Partito, sempre più sull’orlo del baratro, i russi di quegli anni, non sanno più che fare.
Umiliati e stremati dopo anni di repressioni, vite tutte uguali, senza iniziativa alcuna e ritmate dalle forti imposizioni del regime comunista.
Ed alcuni di loro ad un certo punto, pensano di poter essere e fare quello che vogliono.
Senza però saperlo fare e senza avere un obiettivo chiaro.
E’ fondamentalmente questo quello che fa da sfondo al film Cargo 200 di Aleksej Oktjabrinovič Balabanov .
Una perdita totale di valori nel periodo che segna gli ultimi anni di vita del regime comunista e dell’Unione Sovietica.
I protagonisti sono differenti tra loro e di varie estrazioni sociali e rappresentano le varie facce della Russia di allora.
Il professore universitario Artem, un ateo che è convinto della non esistenza di Dio che insieme ad altre figure della pellicola e citazioni famose (Sono la figlia del segretario regionale del partito) fa parte di quell’Unione Sovietica che ancora pensava e voleva continuare a impartire lezioni a tutto il mondo.
Soprattutto a quello capitalista come valida soluzione per una società ricca, benestante e egualitaria.
I giovani che fanno parte della storia non hanno ambizioni, non hanno valori alcuni, ma solo vizi.
Come l’alchool ed i guadagni facili per il giovane Valera, che con la povera fanciulla Angelika (meglio guardare il film per capire il povera, credetemi) condivide il vizietto del tradimento.
E poi come ciliegina sulla torta ci sono quei personaggi che sono il pieno frutto dell’era Sovietica.
Persone completamente manipolate e guidate dal regime durante tutti i suoi anni di vita, frustrate, senza ambizioni reali e senza valore e dignità alcuna.
Sempre vissuti al guinzaglio, e quando sentono tirare meno attorno al loro collo, sono pronti a scatenare senza alcun timore e senza alcun rimorso tutta la loro frustrazione su chiunque gli si pari davanti.
E’ il caso dell’alcolista Aleksey, che vive in una campagna sperduta insieme a sua moglie Antonina che di femminile ha giusto il nome, il loro servo vietnamita ed il capitano di Polizia Capitano Zhurov, colui che si rivelerà il personaggio più crudele ed oscuro di tutta la storia.
Le vite di queste persone si intrecceranno insieme l’una con l’altra in un turbinio di violenza gratuita, sangue e morte, si la morte.
Quella morte che Balabanov ci mostra in più sfaccettature.
In corpi nudi sanguinanti, violentati, che rimangono nelle inquadrature come se ancora avessero qualcosa da dire o da fare.
Che nonostante le zanzare e gli insetti che cominciano a girargli intorno rimangono ancora li.
Impersonificando quell’Unione Sovietica che già morta dentro, non vuole ancora andarsene, e di cui nessuno si vuole occupare.
E come sfondo abbiamo case vecchie, rovinate, angustie.
Le ambientazioni esterne sono fatte solo di fabbriche e fabbriche, la maggior parte in disuso, strade buie, sia quelle di città che quelle di campagna.
Nessuna coordinata spaziale e un minimo di coordinata temporale, che possiamo solo intuire all’inizio per poi conoscere solo alla fine del film.
Parliamo del 1984, il periodo della guerra tra Afghanistan e Unione Sovietica.
Una guerra inutile, fatta solo di tante perdite e di soldati morti.
Quei soldati che potevano rientrare nelle loro madrepatria solo grazie ai voli degli aerei che trasportavano le salme in fredde e tristi bare metalliche, non più di 200 alla volta, i cosiddetti Cargo 200 del titolo.
Un film freddo, che non crea empatia verso nessun personaggio, un cazzotto allo stomaco.
O peggio, una serie continua di cazzotti nello stomaco che non potevano darci un’indicazione più chiara e diretta di quello che era l’agonizzante e morente mondo sovietico.
Che pieno di problemi, scheletri nell’armadio, e tristi segreti, si apprestava a vivere la sua caduta per far spazio ad una nuova Russia che senza più il completo controllo dello Stato si ritrovava a conoscere una libertà in cui nessuno però sapeva quello che era giusto o non giusto fare.
Il film di Balabanov è l’inferno sulla terra, anzi, l’inferno su Madre Russia.