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We are who we are, la non-serie perfetta di Luca Guadagnino

We Are Who We Are vive della sessualità fluo e fluida dei suoi protagonisti, dei beat di Devonté Hynes e una trama che definisce il “momento” in una base militare statunitense a Chioggia, nel 2016.

C’è Fraser Wilson (Jack Dylan Grazer) giovane ossigenato, confuso, passivo-aggressivo e un attaccamento ansioso-ambivalente con la madre (Chloë Sevigny) che si è trasferita in Italia con la moglie (Alice Braga) anch’essa militare. Poi c’è Caitlin (Jordan Kristine Seamón) che diventerà la migliore amica di Fraser. A differenza del ragazzo, lei a Chioggia ci vive ormai da anni, eppure la sua esistenza sta cambiando rapidamente e di pari passo con il suo corpo, sempre più femminile. Una trasformazione che la giovane ragazza vede come una forzatura, una distorsione nel suo cammino, nella sua vita.

Quest’opera pop, dalle didascalie alla colonna sonora, concepita da Luca Guadagnino è la cosa più lontana dall’idea che abbiamo di serie tv.

Sia per forma che per contenuti la pellicola di Guadagnino è un indie movie il cui tema principale resta il coming of age dei suoi protagonisti e il rapporto con i genitori, ma alle spalle del quale, gli autori dipingono un più complesso quadro sociale e politico. L’anno, il posto e la massiccia presenza di immagini di repertorio del presidente Trump, suggeriscono anche una lettura politica della serie, la base militare come sineddoche e le esistenze dei protagonisti come allegoria del “glorioso” popolo statunitense, con i suoi pro e i suoi contro.

La base di Chioggia, che in realtà non esiste, ammicca alla Caserma Ederle di Vicenza o a quella di Aviano e anche se fuori si parla un’altra lingua (incomprensibile anche agli italiani), tra quelle mura e quel filo spinato, troviamo una Springfield qualsiasi, solo con quale Stars and Stripes in più.

Cuori ed altri organi pulsanti nel pieno della loro tempesta ormonale, teenager confusi, anche se spesso meno dei loro genitori, impacciati come esseri umani adulti, concepiti da Guadagnino come giovani cresciuti che scimmiottano saluti e gradi militari.

Guadagnino stiloso come sempre coniuga cinéma vérité (il sottotitolo è “Right Here Right Now”) a modernismi estetici del (corto)circuito indie anglosassone (Xavier Dolan, Andrea Arnold, Sean Baker, i Daniels, Trey Edward Shults ecc).

Per ottenere questo “qui e adesso” il regista si affida ad un cast di illustri semisconosciuti escludendo ovviamente la Sevigny e la Braga. Brava e spontanea la giovanissima Jordan Kristine Seamón per la prima volta davanti ad una cinepresa. Kid Cudi noto rapper già visto in Westworld, Francesca Scorsese, figlia di Martin al suo primo ruolo vero e proprio, un ex concorrente di Masterchef Italia, anche se in realtà di cucina si parla eccome nella serie.

Ma sopratutto c’è Jack Dylan Grazer, spaventosamente simile a Timothée Chalamet e che curiosamente aveva interpretato il ruolo di Chamalet da piccolo nel bellissimo Beautiful Boy di Felix Van Groeningen.

Guadagnino si avvale anche di una troupe molto pensata. Il montaggio è di Marco Costa, 26enne italiano, la casting director è Carmen Cuba (la stessa che ha selezionato i protagonisti di Stranger Things) e la fotografia è del giovane extraterrestre svedese Fredrik Wenzel (Forza Maggiore e The Square).

E poi c’è la colonna sonora che spazia da Giorgio Moroder a Kanye West, da Cosmo a Ryuichi Sakamoto, dai CCCP ad Anna Oxa.

Ma il vero protagonista della OST è Devonté Hynes aka Blood Orange.

Il suo contributo musicale (8 tracce, una più bella dell’altra) è tanto diegetico quanto extradiegetico, nei gusti e nelle cuffie di Frasier. Canzoni che sono parte integrante dello show e un’ occasione per scoprire un artista impressionante che come pochi altri rappresenta proprio il Right Here Right Now tanto caro al regista siciliano.