Nel circuito dei cinefili, è convinzione condivisa che il cinema orientale sia tra le più importanti cinematografie di stampo action o horror/thriller. In verità, c’è tutto un insieme di commedie estremamente valide che il cinema del Bel Paese e statunitense possono solo sognarsi. Una di queste opere è l’oggetto dell’articolo di oggi: Castaway on the Moon di Lee Hae-jun, una meravigliosa critica ai valori della modernità.
Kim Seung-geung è un impiegato ridotto sul lastrico, dopo aver perso quasi tutto, e decide di suicidarsi, lanciandosi nel fiume che passa attraverso Seul. Però il suo tentativo di uccidersi risulta in un fallimento e si ritrova in un’isola deserta a un centinaio di metri dalla metropoli. Inizialmente vuole disperatamente tornare alla civiltà ma, a poco a poco, arriva a chiamare quell’isola “casa”.
Intanto Kim Jung-yeon, una hikikomori, vive sui social networks e simulatori di vita virtuale. Gli unici suoi contatti con il mondo esterno sono le foto che fa alla luna e le esercitazioni civili, durante le quali Seul è completamente deserta e lei vaga per le strade vuote e silenziose. Un giorno, mentre sbircia all’esterno della sua finestra con la sua macchina fotografica, vede il naufrago, che chiamerà “l’alieno”. Da quel giorno, i due instaurano un rapporto d’amore innocente e delicato per mezzo di messaggi che lei gli manda inserendo dei fogli in bottiglie di vetro che lancia da un ponte, di notte, stando attenta a non farsi vedere da nessuno.
Tutto ciò viene raccontato e mostrato con una regia ed una fotografia splendide. Le immagini sono fotografate alla perfezione, capaci di trasmettere emozioni e di far riflettere con poco. I colori sono nitidissimi e molto saturi e rappresentano un uomo sporchissimo e devastato: un’idea geniale, a mio avviso.
Al suo secondo film da regista, dopo essersi dedicato principalmente alla scrittura di sceneggiature, Lee Hae-jun ci regala una prestazione meravigliosa, realizzando dei movimenti di macchina elegantissimi e mai fini a sé stessi, creando immagini che, da sole, riescono a raccontare un’intera storia e di comunicare direttamente con lo spettatore, trasportandolo in un viaggio che sa alternare alla perfezione momenti di pura comicità ad altri più drammatici e riflessivi. Questo passaggio, però, non avviene con uno stacco netto ma la comicità fluisce naturalmente in situazioni drammatiche, come un immissario si mischia ad un fiume, e viceversa. E cosa significa ciò? Che il film è scritto alla perfezione.
Il film di Hae-jun è una splendida descrizione e denuncia della vita dell’uomo moderno, una critica alla modernità e ai suoi valori che stanno deumanizzando l’individuo, relegandolo ad un essere la cui vita dipende solo da elementi esterni all’individuo stesso: soldi, lavoro, opinioni altrui sono i “valori” che definiscono il nuovo essere umano. Che importanza ha essere una persona vera e propria, quando si può essere una “persona” (nel senso latino e teatrale del termine, ovvero “maschera, personaggio fittizio”)? Le nostre vite, oggi, si esauriscono all’interno di valori non umani: se non hai soldi, se non hai un lavoro, se non piaci alle persone, non vali nulla. Questo è quello contro il quale il regista si è scagliato, suggerendo, quasi, un ritorno alla vita secondo natura, quella in cui l’unica cosa che conta sono le nostre forze, le nostre capacità di vivere e di sopravvivere. La felicità si nasconde nelle cose più semplici, come un piatto di spaghetti ai fagioli neri, e gli oggetti che possediamo, in realtà, ci posseggono.
E lo so, è paradossale parlare di questo film su un sito internet, in un articolo che leggerete sullo smartphone, sul pc o sul tablet. Avrei dovuto scrivere questa recensione su un foglio di carta e mandarvela all’interno di una bottiglia di vetro.
Articolo a cura di Federico Querin