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Underground: la rapsodia in blu di Kusturica

“Con dolore, con tristezza e con gioia ricorderemo la nostra terra quando racconteremo ai nostri figli storie che cominciano come le fiabe: c’era una volta un paese…”

Con queste parole l’allegra e chiassosa compagnia felliniana di Kusturica, si congeda a bordo di un isolotto. Un pezzo di terra che magicamente prende il largo e che ha tutte le sembianze dell’ex Jugoslavia.

Nel 1941 durante l’invasione tedesca, Marko (Miki Manojlović) e Petar (Lazar Ristovski), detto Crni o Blacky, Il Nero nella traduzione italiana, sono entrambi innamorati della bella attrice Natalija (Mirjana Joković). La guerra li costringe a portare al sicuro di un rifugio antiaereo i loro amici e parenti. Ci finirà anche il Nero in quel bunker, imprigionato dai tedeschi durante l’occupazione e liberato da Marko. Quest’ultimo, privo di scrupoli li terrà nascosti per venti anni, facendogli credere che la guerra sia ancora in corso e sfruttandoli per la produzione delle armi. Un commercio che permetterà a Marko, non solo di vivere con la bella Natalijam, ma anche di arricchirsi e diventare un esponente di spicco del regime di Tito. Nel 1961 per una fortuita esplosione il Nero e suo figlio Jovan (Srđan Todorović, si proprio lui il porno divo di A Serbian Film) si ritroveranno davanti alla verità. O quasi…

E’ il 1995 l’ultimo anno (se si esclude l’appendice kosovara e macedone) delle guerre balcaniche, causate dalla dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, una decina di anni dopo la fine dell’esperienza titoista.

L’autore che aveva da tempo rinnegato la sua madre patria per sposare la causa serba e la n/ostalgi/e, dei tempi in cui “c’era una volta un paese”, è ora solo. Abbandonato da tutti. Per la stessa ragione Underground sarà anche l’ultima collaborazione col fedele Goran Bregović, divisi ormai da posizioni politiche (ma c’era anche del vile denaro in mezzo). Parlare del lavoro del musicista in questo film vorrebbe dire aprire un capitolo a parte, quindi con gratitudine ci asterremo dal farlo.

Kusturica dalla sua parte ha però la critica, il pubblico e un’idea di cinema tanto derivativa quanto deflagrante.

Se c’era un problema non era certo la potenza debordante delle immagini del regista, quanto contenerle in una narrazione composta. Com’era accaduto in passato anche con Underground Kusturica gira come se non ci fosse un domani. Prolisso, verboso? No, semplicemente chiacchierone! L’autore di Sarajevo realizza un affresco corale di 5 ore, intitolato Bila jednom jedna zemlja (C’era una volta un paese) e trasmessa come miniserie dalla televisione serba. Poi asciuga il tutto riuscendo a non perdere neanche un colpo e confezionando il suo capolavoro.

A differenza de Il tempo dei gitani, bislacco e splendido, ma narrativamente un “tantinello” caotico, Underground trova nelle strutture coesive della narrazione, uno dei suoi punti di forza. Merito della sceneggiatura di Dušan Kovačević, misurata nonostante la titanica impresa di ricostruire in chiave grottesca la storia della Jugoslavia attraverso quella dei due protagonisti. Un racconto che si snoda come novelle picaresche, tra una guerra e l’altra. Tra i nazisti e l’Onu, tra l’invasione nazista di Belgrado del 1941 alla polveriera degli anni ’90. Poi il finale fiabesco e colorato, l’elegia di un tempo andato tra le miserie e le poesie dell’animo umano.

Undergound è un’opera immensa e rapsodica; in blu, come il Danubio, dove finisce il film e nascono i nazionalismi slavi. L’opera più universalmente amata degli anni ’90, che troverete nell’appartamento di ogni cinefilo che si rispetti.