Home Rubriche Outsider Un mondo fragile – La tierra y la sombra

Un mondo fragile – La tierra y la sombra

Come canta Alfonso, mezzo stonato dalle birre bevute:

“hoy me has enseñado
que amor se escribe con llanto.”

Le parole di una canzone popolare scritta anni prima dal cantante e compositore colombiano Álvaro Dalmar, spiegano come e quanto l’amore per se stessi, per i propri cari e soprattutto per la propria terra sia un sentimento doloroso, segnato dal pianto.

Campesino, come tanti altri, lavoratore indefesso che per imprecisate ragioni era stato costretto 17 anni prima ad abbandonare la famiglia, Alfonso (Haimer Leal) fa ritorno nella propria terra natia. Qui trova un figlio gravemente malato, l’ex moglie, la nuora e il piccolo nipotino che non aveva mai visto. Soprattutto Alvaro ritrova la sua terra. Uno scenario diverso da come l’aveva abbandonato. Le piantagioni di canna da zucchero, vengono rase al suolo e bruciate. La fuliggine sta lentamente uccidendo il suo giovane figlio, anch’egli bracciante. I datori di lavoro sono sempre più disumani. Le persone diventano merce. E citando Battiato: “il Re del Mondo ci tiene prigioniero il Cuore.”

Da questa realtà distopica (realtà e non fantascienza), il regista César Augusto Acevedo costruisce la sua opera prima La tierra y la sombra, vincitore della Caméra d’or per la miglior opera prima al 68º Festival di Cannes.

Un mondo post apocalittico che ricorda sorprendentemente Interstellar di Nolan. Come a dire: questo è quello che accadrà al nostro piccolo e fragile mondo. L’equilibrio e la salute del pianeta sono interconnesse a quelle del singolo uomo e la malattia di Geraldo (Edison Raigosa) è quella che dovremmo combattere tutti insieme.

Un film ecologista? Anche. Ma Un Mondo Fragile è soprattutto una pellicola che punta lo sguardo verso la realtà rurale terzomondista per capire a che punto siamo e dove vogliamo arrivare. L’amore per la terra, l’Heimat di Edgar Reitz sono il cuore di un film che con massimo rispetto per il passato cinematografico sud americano, ma ha una forte connotazione europea. Un’opera rurale che guarda al futuro e dal local pensa al global.

Un film essenziale e amaro, di matrice bressoniana che osa senza voler impressionare, concedendosi un sola scena evocativa (il cavallo liberato da Alfonso come metafora di salvezza per la famiglia e di speranza). Poche inquadrature, qualche carrello e quasi niente montaggio, a sottintendere la frugalità della vita di questi uomini e queste donne.

Una storia di contadini, ritratti con quell’impersonalità con cui il verismo verghiano raccontava i lavoratori meridionali. Una storia di uomini che amano la terra, come quelli sfruttati ed ingannati dalla marchesa Alfonsina De Luna nel Lazzaro Felice della Rohrwacher. Realismo (poco) magico di Zavattini o quello di García Márquez (anch’egli colombiano) . Cent’anni di solitudine che però durano solo 90 minuti.

Alla fine per i campesinos non ci saranno viaggi onirici, né speranze. Per loro esiste solo la morte o la fuga dalle fiamme dei loro campi.