Home Rubriche Oriente L’essere umano tra solitudine e banalità: L’Isola di Kim Ki-duk (2000)

L’essere umano tra solitudine e banalità: L’Isola di Kim Ki-duk (2000)

L’essere umano è un animale banale, una bestia che scandisce il proprio tempo alla ricerca della soddisfazione dei propri istinti primitivi: sesso, caccia e poco altro. Questa è l’umanità che, giunto al suo quarto lungometraggio in quattro anni, l’allora quarantenne Kim Ki-duk, uno degli autori più importanti ed apprezzati del cinema sudcoreano, mette in mostra ne L’Isola (Seom), un film senza una vera e propria narrazione nel quale gli eventi si susseguono come tessere del domino: la caduta di una, causa la caduta dell’altra, in una reazione a catena che conduce lo spettatore verso il finale tragico ed amaro. Hyun-shik, un uomo che ha ucciso l’ex fidanzata ed il suo amante, è in fuga dalla polizia e si rifugia in una sorta di villaggio composto da piccole casette galleggianti gestito da una bellissima donna muta, Hee-jin. Questa specie di resort è frequentato da uomini che cercano relax e che passano le giornate a pescare. La donna fornisce loro tutto ciò che serve alla pesca, come ami, esche e quant’altro, oltre a cibo e bevande, nonché prestazioni sessuali; si ritrova anche a fungere da Caronte asiatico, trasportando con una barca gli ospiti e coloro che vanno a far loro visita, in particolare prostitute, portandoli dalla terra ferma alle varie palafitte.

Ne L’Isola i personaggi sono sempre soli, anche quando sono insieme.

Come il futuro Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera (2003), uno dei film più amati del regista, anche L’Isola si svolge in un locus amoenus, pacifico e tranquillo, e gode del dolce suono dell’acqua che domina l’ambiente come colonna sonora intrinseca. Tutta questa bellezza paradisiaca, tuttavia, non è corrisposta da una pace narrativa: infatti, gli eventi che in questo stupendo lago si susseguono sono sempre più destabilizzanti e violenti, arrivando a toccare dei picchi di gore estremi, che faranno soffrire e contorcere lo spettatore, difficilmente sopportabili da chi non ha lo stomaco forte, come avverrà nuovamente nel film più discusso (ed ingiustamente disprezzato, secondo chi scrive) di Kim Ki-duk, Moebius. Eros e thanatos aleggiano costantemente su tutta la pellicola, come fantasmi che infestano una casa maledetta, uniti da un legame indissolubile: il sesso che caratterizza L’Isola è un meccanismo biologico degradante, violento, sempre corrisposto da un dolore fisico o psicologico. Hee-jin viene stuprata da Hyun-shik, ad esempio; oppure, più avanti, lei sfrutterà un momento di enorme dolore di lui, in cui l’uomo è inerme, per farci sesso, senza che lui possa provare alcun tipo di piacere o resistere.

Sbirciamo due che fanno sesso, come dei voyeur.

Lo spettatore non assiste alla storia ma la sbircia, come se fosse un voyeur intrufolato in questo resort. Kim Ki-duk, però, non utilizza l’espediente classico del guardone che osserva gli altri con un binocolo o simili, come fece Alfred Hitchcock con il suo capolavoro, La finestra sul cortile, o come ha fatto Krzsysztof Kieslowski nel sesto episodio del suo meraviglioso Decalogo. Il regista sudcoreano mostra i propri personaggi che, da una palafitta all’altra, osservano la banalità dell’altro, ponendo lo spettatore dietro le spalle di chi guarda, con inquadrature semi-soggettive: in questo modo, noi osserviamo sia chi osserva che chi viene osservato, incrementando quella sensazione di essere un voyeur; un altro espediente utilizzato da Kim è la frapposizione di una qualche forma di barriera tra la macchina da presa ed il soggetto, come una finestra od una tenda che relega nel fuoricampo una parte dei personaggi, in modo da trasmettere un’idea di invasione della privacy. Un esempio è quello della scena in cui un nuovo ospite del resort, appena arrivato, dice a Hee-jin di volerla conoscere meglio e, così, i due fanno sesso: inizialmente il regista mostra la scena dall’interno della casetta assegnata all’uomo ma ben presto la mdp si sposta, con un taglio di montaggio netto e potente, all’esterno della palafitta, mostrando solo le gambe dei due che sbucano da dietro la tenda chiusa sull’ingresso.

La solitudine e l’incomunicabilità dell’essere umano sono temi cari da Kim Ki-duk, che collegano come un fil rouge la sua produzione cinematografica, ed anche L’Isola, come Bad Guy, Ferro 3 o Time, non fa eccezione. I silenzi che dominano il film sono pesanti come l’universo ed amplificano le distanze che separano una palafitta dall’altra. Distanze siderali; il gelo relazionale; la totale morte di qualsiasi sentimento: L’Isola è un oblio di negatività  e poesia, capace di unire l’infinita eleganza del Kim di Primavera e la devastante violenza di Moebius. Una delle sue opera maxima, un capolavoro del cinema contemporaneo che non può non ricordare le atmosfere della cattivissima e bellissima  trilogia della glaciazione dell’austriaco Michael Haneke.