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The Lesson – Scuola di vita

Nadia è una professoressa in una scuola media in un piccolo paesino bulgaro. Quando la donna scopre che uno dei suoi alunni è un ladruncolo, prova a risvegliare in lui il senso di colpa e di appellarsi alla sua rettitudine morale. Tutto al fine di convincerlo ad uscire dall’anonimato e prendersi le sue responsabilità.

Contemporaneamente però l’insegnante viene catapultata in un vortice di improvvisi problemi economici. Ricevuta infatti la notifica di pignoramento della sua casa da parte di un funzionario del tribunale, sarà costretta a fare di tutto per arrestare l’impietosa macchina burocratica.

Forse anche scendere a patti con il suo stesso rigore morale.

Il sociologo francese Edgar Morin, nel gennaio del 1960, in un suo articolo sul settimanale France-Observateur, riferendosi al cinema del celebre regista e teorico russo Dziga Vertov, parlò per la prima volta di “cinéma vérité”.

Gli esordienti Kristina Grozeva e Petar Valchanov fanno propria questa celebre locuzione per la loro personale lezione cinematografica.

Non si tratta di essere fratelli o di aver vinto Cannes, ma certo il loro esordio, sobrio e bilanciato, sembra proprio un omaggio ai fratelli Dardenne.

Tra i più celebri e recenti porta bandiera della lezione di Morin.

In particolar modo Grozeva e Valchanov rendono omaggio a Rosetta. Pellicola che permise agli stimati autori belgi di vincere la Palma d’oro nel 1999. Come la giovane Émilie Dequenne, anche Nadežda, la monoesprassiva (per scelta e merito) insegnante di The Lesson, si trova a convivere con una situazione di miseria, conflitti morali e/o etici, un alcolista in casa ed una roulotte (che cercherà disperatamente di vendere per risolvere i problemi economici).

Gli autori pedinano la protagonista proprio nei giorni in cui il suo dilemma personale la mette a confronto con i propri valori e la rettitudine di essere umano (innanzitutto) che sta cercando di inculcare ai suoi studenti.

Una parentesi nella vita di Nadežda che si apre e si chiude simbolicamente con il nero e il solo rumore del gesso sulla lavagna. Una lezione appunto.

Il vigore e l’efficacia della pellicola bulgara li ritroviamo senza dubbio nell’imparzialità e nel distacco degli autori. Nessun giudizio, nessuna condanna, solo una storia. Il loro approccio documentaristico e la algida “esecuzione” dei fatti, innescano una bomba implosiva. Come un’atomica nella fossa delle Marianne.

L’uso della telecamera in semisoggettiva o pseudo-soggettiva, in stile Van Sant di Elephant (o gli stessi Dardenne), non fa che infiocchettare il concetto.

E se talvolta lo sforzo narrativo, risulta vagamente didascalico e forzato, tanto da far intravedere la sottana sotto la gonna, si perdona il peccato veniale. Proprio nel nome del delicato equilibrio docu/finction.

In fondo sempre nel 1960 lo stesso Morin, proprio durante il Festival di Cannes, ebbe a dire: “Si tratta di fare un cinema verità che superi l’opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico. Bisogna fare un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva.”

Missione compiuta.

Recensione a cura di Giuseppe Silipo