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The Addiction – Vampiri a New York (1995)

Tra i film più radicali e di culto degli anni ’90, emblema ed erede del cinema underground americano più puro e sanguinario, The Addiction è tra i capolavori della coppia Abel Ferrara / Nicholas St. John.
Terzo capitolo della Trilogia del Peccato, iniziata con Il Cattivo Tenente e proseguita con Occhi di Serpente.
Altissimo e compiuto esempio dell’unione possibile tra cinema di genere e cinema d’autore filosofico.

Per noi il sangue non è un effetto speciale, ma qualcosa che riflette la realtà del mondo.
Nel mondo accadono cose orribili e noi non cerchiamo di nasconderlo.
Ma non si tratta di spettacolo.
Quel che conta è che a qualcuno venga fatto del male.
Diventa un problema religioso.

(Nicholas St. John)
The Addiction, assieme a The Funeral (Fratelli), ma in modo forse ancora più complesso rispetto a quest’ultimo (che tuttavia considero ancora il massimo capolavoro ferrariano), rappresenta la massima e più profonda riflessione/indagine sul Male nel corso della Storia e nella natura umana mai messa in scena.
C’è in questo film un tale insieme di riflessioni ed implicazioni morali, antropologiche e religiose/trascendenti incredibile per un lavoro di soli 82 minuti.
Quella dei vampiri newyorkesi creata da Ferrara è la più azzeccata metafora della dipendenza, del peccato e, in ultimo, della malvagità stessa che permea l’umanità nel corso dei millenni.
Fin dai tempi della scuola, infatti, siamo abituati a sentirci dire che la Storia, affinché non debba essere ripetuta, deve insegnare, essere appresa, studiata.
Ma la lezione di Ferrara e St. John è che questa non è che una mera illusione, una visione rassicurante, edulcorata e propagandistica degli eventi.
Che il tempo non è – come molti, troppi, vogliono credere – la cura o la via per il perdono di colpe pregresse.
Un cancelletto, una comoda rimozione, un modo di lavare il sangue che è stato versato.
Come se la responsabilità non fosse collettiva ma solo di pochi individui.
In questo risiede, difatti, l’emblematica e fisiologica – nonché ciclica, perpetua – ricerca del capro espiatorio.
Mentre invece tutto resta dentro di noi, nella nostra storia ed essenza.
Come una traccia indelebile nel codice genetico, nel DNA di una civiltà.
Il film parla di Determinismo (di conseguenza, dell’assenza del libero arbitrio) e, come sempre nei film del duo italoamericano, di una ricerca di redenzione, una conversione al culmine di un percorso di presa di coscienza dei propri peccati e dell’esistenza del Male.

Il film fa ampio ricorso alla voce fuori campo e a citazioni di grandi filosofi, poeti e scrittori dell’Ottocento e del Novecento, ma lo fa in modo critico, non come mera esibizione intellettuale, per farsi scudo di un banale nozionismo culturale.

Così Nietzsche, Kierkegaard, Baudelaire, Feuerbach, Borroughs, vengono presi in considerazione – e talvolta anche dissacrati – per discutere della visione del film, per articolare delle tesi, avvalorarle o contrastarle, non come esercizio fine a se stesso.
In questo, senza dubbio The Addiction è un’opera profondamente intellettuale, ma assolutamente non intellettualistica. Oltre che religiosa.
Rispetto a The Funeral, in The Addiction è comunque visibile uno spiraglio di luce alla fine, un filtro di speranza, che viene offerta alla protagonista (Lili Taylor, attrice che avrebbe meritato di più in carriera, indimenticabile anche in Arizona Dream e Six Feet Under), in quanto essa, a differenza dei fratelli Tempio, è destinata alla salvezza dell’anima in punto di morte.
“I demoni soffrono all’inferno”
82 minuti di esperienza assolutamente da vivere più e più volte.

Riccardo Aniki