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Tangerines – La guerra degli agrumi

Partiamo da un breve ma necessario contesto storico-politico. Della Repubblica separatista di Abcasia infatti ci sono arrivate ben poche notizie attraverso i telegiornali, ma diciamo che si tratta di uno sfortunato e profumato territorio dove da anni si combatte la “guerra degli agrumi”.

Tutto ebbe inizio nel 1991, quando gli indipendentisti abcasi imbracciarono le armi per la loro causa separatista, osteggiata dai georgiani. Uno dei tanti focolai dovuti allo smembramento dell’Ex Unione Sovietica. Un conflitto partigiano combattuto tra le modeste case di agricoltori ed allevatori locali. La guerra ha fatto fuggire migliaia di abitanti di questa sfortunata regione, soprattutto chi si è trovato in mezzo, non essendo né abcaso né georgiano. In questa stretta lingua di terra infatti da secoli viveva una numerosa comunità estone. Il loro rientro nella lontana madre patria divenne inevitabile in quei primi anni ’90. Tra i pochi che decisero di rimanere, fieri della terra in cui sono cresciuti, troviamo i protagonisti della nostra storia. Ivo (Lembit Ulfsak), orgoglioso estone, ma che di andare via non ha alcuna voglia e costruisce cassette di legno e Margus (Elmo Nüganen), vicino di casa compatriota che vuole solo completare un ultimo raccolto di mandarini prima di abbandonare il villaggio e tornare in Estonia.

La loro vita procede tranquilla, gustando in compagnia degli ottimi šašlyk fatti al barbecue e un bicchiere di vodka. Una umile vita da contadini. Poi però il conflitto si scaraventa con tutta la sua inutile e sanguinolenta ferocia, nei loro terreni. Dopo uno scontro a fuoco, Ivo si trova a dover curare nel proprio umile casolare, due membri di diversa fazione: il georgiano Niko (Mikheil Meskhi) e il mercenario ceceno Ahmed (Giorgi Nakhashidze), che combatte per l’Abcasia.

Tra i due è subito guerra. Nonostante le gravi ferite si prometto vicendevolmente morte. Giusto il tempo di riprendersi. Ma passano i giorni e non si sa come, la ragione viene vuoi. Ad aiutare un civile rapporto tra i due anche la mediazione del saggio Ivo. Il tutto fino al poco consolatorio e non spoilerabile finale.

Questo è il contesto e la trama di un film semplice e sincero scritto, prodotto e diretto dal regista e sceneggiatore georgiano Zaza Urushadze (se il nome vi dice qualcosa probabilmente ricorderete il padre Ramaz Urushadze, ex portiere sovietico). La pellicola ha ricevuto la nomination come miglior film straniero all’87ª edizione del Premio Oscar e alla 72ª edizione dei Golden Globe.

Pur non trattandosi di un film particolarmente innovativo, l’opera di Urushadze parla in maniera genuina, riprendendo un discorso interrotto 18 anni fa da Danis Tanović con No Man’s Land (Ničija zemlja).

 

L’inutilità dei conflitti e dei nazionalismi oltranzisti e la possibilità di ritornare ad essere uomini una volta gettate le armi. Uno dei tanti film pacifisti che ha il merito ergersi solidamente grazie ad un approccio filmico essenziale che si concede qualche elemento allegorico qui e li, ma che di fatto è proteso alla semplice narrazione dell’assurdo.

Zaza Urushadze non si perde in dettagli. Sacrifica ogni vezzo stilistico al fine di raccontare una storia. Il risultato è una pellicola di cui si avverte l’urgenza narrativa più che quella espressiva. Ottima poi l’interpretazione degli attori, su tutti quella del gigante del cinema estone Lembit Ulfsak, deceduto poco più di un anno fa. Un altro che purtroppo non c’è più è Irakli Charkviani, scrittore, poeta e musicista georgiano che ha scritto “Qagaldis Navi” pezzo con il quale Urushadze chiude la pellicola. Non proprio un happy end mentre la mdp sorvola il paesaggio della Guria, regione a nord della Turchia e poco distante dalla Abcasia, dove il regista è stato costretto a girare il film.

Purtroppo infatti la guerra lì ancora non è finita.