Home Rubriche Oriente La Storia della Principessa Splendente: l’ultimo capolavoro di Isao Takahata (2013)

La Storia della Principessa Splendente: l’ultimo capolavoro di Isao Takahata (2013)

Chi scrive è un ragazzo restio all’utilizzo del termine “capolavoro”, spesso usato a sproposito, per indicare semplicemente un film estremamente bello. Un capolavoro, per il sottoscritto, deve possedere un’anima inimitabile, un quid che lo ponga al di sopra di qualsiasi altro prodotto appartenente alla medesima arte. 2001: Odissea nello Spazio, per fare un solo esempio, è un capolavoro per la sua rielaborazione del genere fantascientifico, per le innovazioni tecniche, per la struttura narrativa, ecc. La storia della Principessa Splendente di Isao Takahata, che ci ha da poco lasciati, rientra a tutti gli effetti entro i canoni del “capolavoro”. Film datato 2013, l’ultima opera del co-fondatore dello Studio Ghibli racconta una storia semplice illustrandola con una raffinatezza ed una bellezza uniche nella storia dell’animazione giapponese e non solo.

La trama del film è un adattamento di un’antica leggenda giapponese risalente al X secolo, Taketori monogatari, uno dei più antichi racconti popolari nipponici di cui abbiamo conoscenza, tanto che il testo originale ancora possiede un ampio lascito della lingue cinese. Riducendola all’essenziale, racconta la storia di una misteriosa bambina, nata da un bambù e cresciuta da una coppia d’anziani, che dagli dèi ricevono anche una enorme quantità di pepite d’oro e preziosi kimono, rinvenuti all’interno di piante di bambù. Questa ricchezza verrà impiegata dai due genitori addottivi della fanciulla per trasferirsi in uno sfarzoso palazzo nella capitale, nella quale la ragazza, che verrà chiamata Principessa Splendente, diviene oggetto del desiderio di cinque nobili e addirittura dell’Imperatore, tutti rifiutati dalla protagonista.

Quella raccontata da Takahata è una storia semplice nel suo svolgimento ma che cela dietro una più diretta critica al materialismo dell’uomo una più profonda riflessione sull’esistenza, estrinsecata solo negli ultimissimi minuti del film. La storia della Principessa Splendente si sviluppa per mezzo di disegni dalle linee essenziali, che abbozzano appena il mondo che il regista ed il suo team hanno voluto creare per i propri personaggi. I ricchi acquerelli, che colorano i quadri con sfumature delicate, non occupano quasi mai l’intera area dei fotogrammi, lasciando spesso ampie parti delle inquadrature bianche, in modo da far concentrare l’attenzione dello spettatore solo su ciò che è importante. L’occhio viene guidato dai colori e dalle spesse linee nere che formano le immagini, che fanno da contraltare all’opulenza della quale i due anziani diventano schiavi, in particolar modo l’uomo. Pochi sono i movimenti di macchina, la regia di Takahata è posata e delicata, specchio della malinconia della Principessa Splendente, la cui esistenza è, in realtà, una non-esistenza, l’attesa di altro che è oltre, altrove.

In questo senso, la triste storia della Principessa Splendente ricorda la critica nietzscheana al Cristianesimo ed all’uomo cristiano, il quale rifiuta di vivere la vita nell’Aldiqua, trascorrendo il proprio tempo su questa terra con una costante pulsione per la morte, con il pensiero perennemente alla illusoria vita nell’Aldilà. La Principessa Splendente si lascia sfuggire il proprio presente tra le mani, il suo cuore è un giano bifronte, da una parte rivolto verso il proprio umile passato, visto con nostalgia, e dall’altra verso quell’altrove che spera sempre di raggiungere. In questo suo ultimo capolavoro Takahata mette in mostra una duplice ricerca della felicità: quella veniale e materiale del padre adottivo, per il quale il benessere economico coincide con la felicità stessa e l’apparire ed il piacere agli altri nobili sono l’unica cosa che conta. La Principessa stessa si ribella a questo materialismo del padre ed all’”essere oggettificata” (che rende il film molto moderno, rispetto al racconto tradizionale, come ha ammesso Takahata stesso in un’intervista); e quella della fanciulla, una felicità evanescente ed irraggiungibile poiché mai appartiene al presente. In entrambi i casi, il sacrificio è inevitabile e ciò rende questa ricerca, oltre che vana, anche dolorosa.