“Avevamo due buste di erba, settantacinque palline di mescalina, cinque fogli di acido superpotente, una saliera mezza piena di cocaina, un’intera galassia multicolore di eccitanti, calmanti, scoppianti, esilaranti. E anche un litro di tequila, un litro di rum, una cassa di birra, mezzo litro di etere puro e due dozzine di fialette di popper. Non che per il viaggio ci servisse tutta quella roba, ma quando ti ritrovi invischiato in una seria raccolta di droghe, la tendenza è di spingerla più in là che puoi.”
Il film di Terry Gilliam è tratto dal libro parzialmente autobiografico Fear and Loathing in Las Vegas di Hunter S. Thompson. La trama è solo un pretesto. Il giornalista Raoul Duke viene incaricato di scrivere un articolo sulla gara motociclistica off-road Mint 400, nel deserto fuori Vegas. Il cimitero di chi a Vegas non sapeva starci o chi non pagava i conti. A fargli compagnia il Dott. Gonzo, discutibile avvocato samoano, più interessato alle leggi della chimica psicotropa che alla Lex Fori.
Ma per parlare di Paura e delirio a Las Vegas dobbiamo iniziare dalla Beat Generation, anzi proprio dal termine Beat che, anche solo per assonanza, potrebbe essere tradotta con la parola “beat-itudine”, intesa come ascesa spirituale (nel retaggio cattolico di Kerouac) . Il 13º e ultimo piano della piramide di illuminazione, dove sorge l’occhio che tutto vede o “terzo occhio” nei deliri di Roky Erickson e dei The 13th Floor Elevators. Una sorta di viaggio verso uno stato di mistica liquefazione della percezione.
Effetti da sostanze psicoattive di LSD, mescalina, funghi e tutto ciò che ti capita di avere a portata di mano se ti trovi lungo l‘Interstate 15 “dalle parti di Barstow quando le droghe cominciano a fare effetto”. Magari anche dell’etere diabolico… ti fa comportare come l’ubriacone del villaggio di un romanzo irlandese. Perdita totale di ogni elementare capacità motoria, vista offuscata, niente equilibrio, lingua intorpidita. La mente si rifugia nell’orrore incapace di comunicare con la colonna vertebrale. Il che è interessante perché ti permette di osservarti mentre ti comporti in quel modo spaventoso ma non puoi farci niente. Prima di arrivare a destinazione si aprono le porte della percezione di Huxley, William Blake, i fottuti Doors. E poi anche se sale l’adenocromo, non se ne accorgerà nessuno, in fondo a Las Vegas ci sono solo turisti, strane creature, dinosauri in un’affollata hall.
Americani in America che invece di cavalcare l’onda della beota retorica tutta strass & dreams statunitense, spendono i soldi risparmiati, in mega confezioni di Cap’n Crunch e alle slot machine del Bellagio o del MGM. E pensare che queste terre (non questo fottuto deserto, ma tutti gli States) un tempo erano di Wašíčuŋ Tȟašúŋke o chi per lui.
D’altronde Timothy Leary, quello che prestò i versi a Lennon per la beat-lesiana e lisergica “Tomorrow Never Knows”, venne iniziato all’uso delle sostanze psichedeliche, proprio durante un rituale religioso di nativi americani.
Hunter e Terry sembrano dire: in fondo questa terra e questa vita è una “Psychedelic Experience”, è un viaggio spirituale in una terra spirituale. L’America appartiene ai nativi e noi siamo solo ciccioni che s’ingozzano di triple bacon burger. Forse è per questo che Benicio Del Toro ha accettato la parte per miseri 40 dollari al giorno, affermando di averlo fatto solo per essere libero di mangiare, tutti burrosissimi donuts che voleva. Eravamo nel bel mezzo del film. Eravamo in procinto di spiegarvi perché Paura e delirio a Las Vegas, sia una perfetta metafora della decadenza statunitense (pre e post Vietnam). Dell’ipocrisia del puritanesimo ereditato dai padri pellegrini.
This Land Is Your Land cantava Woody Guthrie e chissà chi prima di lui. Quella terra che non ti appartiene per diritto di nascita, perchè se così fosse, c’era gente prima di te. Quella terra che va vissuta, in lungo e in largo. Qui non si parla delle carovane di The Grapes of Wrath di Steinbeck. Questo non è un viaggio in cerca di opportunità, ma un gesto spirituale in cerca di ascesa e libertà per “easy rider”.
Poi ricordo che dissi qualcosa tipo: “Sento la testa leggera… potresti guidare tu?”. D’un tratto ci fu un terrificante ruggito intorno a noi, e il cielo si riempì di cose che sembravano enormi pipistrelli stridenti in picchiata sulla nostra macchina. Una voce urlava: “Santo iddio cosa sono questi maledetti animali?! Ma quello era solo l’inizio del “viaggio”. Ehi Jack… beatitudine un par di palle! Gilliam dietro la mdp è invece più lucido che mai. Lui ha la beat-itudine innata, infatti poi è venuto a vivere in Umbria. Lui che ha rinunciato alla cittadinanza americana. Lui che nel film esagera, deforma. Fisheye come se non ci fosse un domani. Chissà che non abbia ragione.
Qualcuno aveva già provato a portare al cinema Fear and Loathing, le facce erano quelle di Bill Murray e Peter Boyle, in una pellicola mai distribuita in Italia “Where the Buffalo Roam”. Parliamo del 1980. Forse era troppo presto.