Quanto conta la trama di un film e quanto, invece, ci appassioniamo alle pure immagini che vediamo? Esistono film dalle storie interessanti ma dalla pessima fotografia e altri in cui veniamo catturati esclusivamente dall’aspetto visivo.
Parliamo qui di due recenti pellicole che riescono a integrare entrambi gli ambiti, puntando però in modo particolare su ciò che le immagini riescono già di per sé a suscitare. Ci riferiamo, da questo punto di vista, soprattutto a Samsara, un film del 2011 diretto da Ron Fricke. Qui le immagini fanno da assolute protagoniste: lungo tutta la durata del film non sono infatti presenti né dialoghi né didascalie a chiarire le dinamiche della storia. Di fatto, il regista ci mostra dei luoghi meravigliosi dislocati in diversi Paesi del mondo e altre realtà meno affascinanti, sollecitando interrogativi sempre aperti, a cui ogni spettatore può trovare le proprie risposte.
Sono chiare alcune polemiche come l’opposizione alla guerra e agli allevamenti intensivi di animali da macello. Più in generale, si può scorgere una critica nei confronti della moderna società in cui l’evoluzione dell’essere umano, allontanandosi dalla Natura, ha preso sempre più una piega sbagliata, fino a portare l’uomo, succube dei propri istinti, ad unirsi a donne di plastica mentre donne reali, in carne ed ossa, sono costrette a prostituirsi.
Si passa dunque dalle trafficate metropoli, dove macchine e luci si inseguono su strada come automi, ai luoghi in cui l’uomo riesce ancora a mantenere un rapporto spontaneo col resto del creato. Ciò avviene con un fluire di immagini impressionante, scorrendo da una rappresentazione all’altra senza soluzione di continuità, come se tutto fosse legato da un invisibile filo chiamato “vita”. La vita viene infatti indagata nella sua circolarità: nascita, morte e rinascita in un ciclo continuo che il film riesce a rendere in modo meraviglioso proprio per questo senso di fluidità che trasmette attraverso un montaggio magistrale.
Per chi conosce Baraka, un altro capolavoro di Ron Fricke, questa non è di certo una sorpresa: la pellicola 70mm garantisce nitidezza alle riprese e fa immergere lo spettatore nel mondo un po’ zen del regista. Le musiche, calibrate alla perfezione rispetto alle scene cui fanno da sottofondo, aiutano ancora di più a concentrarsi su questo aspetto.
Alle volte l’attenzione dello spettatore rischia di calare, perché non è facile rimanere concentrati su lunghe sequenze di immagini, ma chi ha lavorato al film sa bene come riguadagnarla subito dopo grazie a repentini cambi di ambientazione, luci e colori. Anche le coreografie ben studiate fanno parte di quest’accurata creazione.
Le cose si trasformano, trapassano l’una nell’altra in modo naturale e quasi spontaneo, per poi tornare a ciò da cui erano partite, rendendo così vani tutti i passaggi nel mezzo. Si inizia dal disegno di un mandala e lì si ritorna, cancellando infine ciò che era stato in partenza: a metà tra queste due scene, abbiamo assistito all’incredibile viaggio sospeso tra la vita e la morte.
Simile quanto a stile visivo, sebbene molto più concentrato sulla trama sottesa alle immagini, è The Fall, un remake di un film bulgaro del 1981. Tarsem Singh dirige la versione del 2006, nella quale Roy Walker è un uomo ricoverato in ospedale che inizia a raccontare ad Alessandria, una bambina rumena anch’essa paziente dell’ospedale, una storia su Alessandro il Grande. Pian piano la narrazione si concentra su cinque curiosi personaggi che, per un motivo o per l’altro, hanno tutti intenzione di uccidere un crudele governatore spagnolo. Anche qui le immagini sono dotate di una forza intrinseca, soprattutto è notevole la precisione negli spostamenti presenti in alcune scene.
Il film si dipana dunque tra il racconto del paziente, in cui le immagini più belle sono mostrate, e la cornice della storia, dove le vicende personali di Roy e Alessandria vengono a galla man mano. L’uomo è uno stuntman che, a seguito di un incidente sul set, si ritrova ora con le gambe paralizzate, tradito inoltre dalla donna che amava per un attore ben più noto. La piccola, raccoglitrice di arance con la mamma e la sorella, è in cura in ospedale per un braccio rotto sul luogo di lavoro; curiosa e dalla fervida immaginazione, rende propria la storia raccontatagli da Roy tanto da credere di essere un personaggio della stessa.
Splendide immagini di deserti, riti e combattimenti si alternano al filo principale della trama del film. A questo punto un interessante colpo di scena rivela le vere e interessate intenzioni di Roy e offre così anche una svolta al racconto che l’uomo sta narrando: la spettacolare fotografia di The Fall mostra come Roy faccia morire, uno a uno, tutti gli eroi della propria storia, mentre Alessandria, triste per il mancato lieto fine, cercherà di farlo desistere.
Come in Samsara, anche in questo secondo esempio abbiamo una trasformazione di un oggetto a un altro: basti ricordare la bellissima sequenza di una farfalla che diventa un’isola contornata da acqua cristallina grazie alla somiglianza di forma.
Notevoli anche i movimenti di camera: ciò si nota soprattutto durante il matrimonio di uno dei protagonisti della storia raccontata da Roy. Dopo una ripresa dall’alto in cui i vestiti delle donne roteano in coreografie che ricordano da vicino quelle di Busby Berkeley (un riferimento alla storia del cinema si trova sia all’inizio che alla fine del film, con immagini tratte dai capolavori comici di “Buster” Keaton e Charlie Chaplin), la telecamera inizia a muoversi attorno agli attori in un cerchio continuo. Anche i campi lunghi e lunghissimi meritano di essere visti con attenzione per la bellezza dei paesaggi. Per quanto non paragonabile a Samsara quanto a rappresentazione visiva, anche questo film ci regala alcune immagini impagabili. Da guardare e apprezzare. La meraviglia ci può cogliere a ogni scena del film.