Nashville di Robert Altman non parla solo di questa splendida città. Non parla solo del Grand Ole Opry, del country, delle GooGoo Candy, del mitico RCA Studio B, del Partenone.
Nashville è un film che parla degli Usa, del paese che nasconde le sue ferite, delle sue meravigliose tradizioni e delle sue inaccettabili contraddizioni.
Ci vorranno 30 anni per rivedere impressa in una pellicola una così lucida e spietata analisi degli States. A farlo sarà Paul Thomas Anderson, il più importante e dichiarato erede di Altman, che già aveva omaggiato nella forma “America Oggi” con il suo “Magnolia”, replicherà nei contenuti “Nashville” con il suo capolavoro “Il Petroliere”. Non è un caso che Anderson abbia diretto “There Will Be Blood” a pochi mesi dalla morte di Altman.
Nashville è una storia corale, dove non ci sono protagonisti né antagonisti, dove 24 storie s’intrecciano in maniera magistrale, grazie ad una sceneggiatura impeccabile scritta da Joan Tewkesbury, già autrice di “Gang” e dallo stesso Altman, che quasi raddoppiò i personaggi per rendere più completo e caotico il suo universo americano.
La trama che ne esce fuori è complessa e caotica, autentica e potente, gira tutto intorno alla campagna presidenziale di un politico populista e al microcosmo musicale della città di Nashville. Altman volle girarlo cronologicamente costringendo gli attori ad un lavoro doppio. Chiese loro di scrivere le canzoni che avrebbero voluto suonare e cantare durante il film. Una follia mai vista al cinema che però fruttò alla pellicola il suo unico premio Oscar per la miglior canzone scritta proprio da Keith Carradine “I’M Easy”.
Sono in molti a sostenere che la scena in cui il personaggio di Carradine canta il pezzo illudendo quattro donne, convinte di essere le sue muse, sia tra i più belli e folgoranti momenti della storia del cinema statunitense degli anni ’70.
Può darsi. In fondo si parla di amore. Di quanto sia facile parlare di amore. Come fumare una sigaretta a letto (vedi la scena successiva di Carradine e Lily Tomlin). Ma forse con “I’m Easy” Altman ci sta parlando di altro, di ipocrisia, inganno, l’America che, come abbiamo detto, troppe volte e senza darlo a vedere, cura ma non cicatrizza le sue ferite.
C’è un’altra scena forse ancora più iconica, ed è quella finale, in cui viene uccisa l’icona tutta americana. La totally american singer che canta sul palco, metafora del melting pot usa, della falsa armonia, stelle e strisce. Il montaggio alterna la “Madonna” anni 70 con la bandiera e la faccia dell’assassino. Alla fine di questo macabro show, la reginetta di turno trova finalmente spazio per cantare il suo pezzo al posto della diva appena colpita a morte. Come a dire che, comunque vada, quel carrozzone deve andare avanti, the show must go on. La canzone di Barbara Harris (altra meraviglioso pezzo scritto da Carradine), poi è emblematica “It Don’t Worry Me”.
E chi se ne frega!
Va di scena la trenodia dell’American Dream. Alle spalle il celebre Partenone di Nashville, una riproduzione in scala dell’originale, ancora oggi attrazione della città, che nel suo inarrivabile immaginario.
Altman trasforma in metafora una falsa replica della democrazia greca.
Ma intanto la regina è morta, viva la regina.
Forse non è neanche un caso che porti il vero nome di Marylin Monroe, quell’altra grande Jean.
Pochi anni dopo quando John Lennon venne ucciso da un fan, similmente a quanto aveva fanno nel film il giovane Kenny con Barbara Jean.
In molti colsero quell’analogia filmica, tanto che Altman in un’intervista dichiarò: “Quando John Lennon fu assassinato, ricevetti immediatamente una chiamata dal Washington Post e un giornalista mi chiese se mi sentissi responsabile per quell’evento”.
Ovviamente “Nashville” aveva poco a che fare con le confuse motivazioni di Chapman.
Una cosa è certa, in un paese dove tutti girano con una chitarra in una custodia rigida, quant’è facile nascondere un’arma.