Catherine è un’artista che si trasferisce da Manhattan nella valle dell’Hudson. Poco dopo il suo arrivo inizia a scoprire segreti inquietanti, non solo riguardanti la casa, ma anche su suo marito George.
E’ approdato lo scorso 29 Aprile su Netflix il thriller horror L’apparenza delle cose, basato sull’omonimo romanzo di Elizabeth Brundage. Ennesima storia trita e ritrita sulla casa infestata che prende come vittima una famiglia apparentemente perfetta.
Come lo spettro che aleggia in casa, anche la noia inizia a volteggiare nel salotto dello spettatore che segue vicende straviste raccontante senza un minimo di nervo.
L’apparenza delle cose non ha un buon ritmo, dura eccessivamente troppo e non ha scene memorabili. Non crea tensione, non mette paura ed è imperdonabile per un thriller con venature horror. Come se non bastasse, queste due ore sono gestite anche in maniera discutibile visto che dopo diverse sequenze di noia si va verso un finale sbrigativo, approssimativo e a tratti imbarazzante.
I registi Shari Springer Berman e Robert Pulcini sono nuovi nel genere, dopo tanta commedia, e non sembrano portati per le ghost stories. Sembrano un po’ impauriti nel non fare troppo e forse a una certa anche loro si sono addormentati. Non c’è nervo, manca anima e identità. A chi vede, arriva solo una splendida fotografia di Larry Smith (Eyes Wide Shut, Solo Dio perdona) e poco altro.
Il cast è un altro pregio di questo film, anche se ognuno è prigioniero dei cliché: Amanda Seyfried è ottima nei panni della moglie indifesa, ma è James Norton a splendere più di tutti anche se interpreta il classico marito che sotto sotto è una persona orrenda. Natalia Dyer (Stranger Things) è precisa nel ruolo della Lolita – anche se un po’ insipida – e fa piacere rivedere un grande attore come F. Murray Abraham nei panni di Floyd.
Citando un grande thriller cult, L’apparenza delle cose è calma piatta. Neanche un sussulto, ma tanti sbadigli. Un’occasione sprecata.