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La legge di Lidia Poët (2023) – La Recensione

Anche se abbondantemente romanzata, la serie Netflix La legge di Lidia Poët prende spunto dalla vera storia della celebre avvocatessa italiana, prima donna a entrare nell’Ordine degli avvocati. Siamo nella Torino di fine Ottocento, quando una sentenza della locale Corte d’appello dichiara illegittima l’iscrizione di Lidia Poët (Matilda De Angelis) all’Albo degli avvocati. Alla giovane e testarda professionista non resta che fare un passo indietro e assistere lo studio legale del fratello Enrico (Pier Luigi Pasino). Nel mentre, Lidia prepara il ricorso per ribaltare le conclusioni della Corte.

Una battaglia contro il sistema e contro una società ancora molto maschile e maschilista.

Scritta da Guido Iuculano e Davide Orsini e diretta Matteo Rovere e Letizia Lamartire, La legge di Lidia Poët è apparentemente la classica serie crime da televisione generalista. Ogni episodio ha un omicidio, un colpevole e un epilogo. Questo forse rappresenta il limite principale di una serie che cerca di autoconcludersi narrativamente ogni 50 minuti, paletto strutturale che limita non poco la credibilità e la profondità dei personaggi.

Per il resto però la serie ha un respiro più ampio e internazionale. La legge di Lidia Poët funziona come pamphlet femminista e si apprezza anche da un punto di vista estetico e interpretativo. Sempre più matura l’interpretazione di Matilda De Angelis, ma bravi anche Eduardo Scarpetta e Pier Luigi Pasino (forse la rivelazione della serie).

Nel complesso siamo più dalle parti di Enola Holmes che di Lolita Lobosco.

Un incoraggiante prodotto seriale nostrano per scrollarci di dosso la solita solfa RaiBoomer che imperversa ormai da troppi anni.