Home Rubriche Oriente Ip Man di Wilson Yip: le radici di una leggenda

Ip Man di Wilson Yip: le radici di una leggenda

Tutti conoscono Bruce Lee, anche chi non ha mai visto un suo film. Tuttavia, in pochi conoscono un leggendario maestro di kung fu, che fu maestro anche dello stesso Lee: Ip Man, il cui fantastico stile si chiama Wing Chun. Il mondo del cinema raramente ha celebrato questa figura, in particolare abbiamo dovuto aspettare gli anni 2000 per vedere dei film incentrati su Ip Man. Nel 2013 uscì The Grandmaster, di Wong Kar-wai, ma cinque anni prima Wilson Yip diresse Ip Man, primo film basato sul maestro.

Il film segue la storia di Ip Man a cavallo tra gli anni ’30 e ’40, a Foshan, e si divide in due parti: la prima ha toni da commedia e vediamo l’azione ripresa quasi come se fosse un gioco infantile, come i bambini che al parco fingono di fare la guerra, con spensieratezza, mentre la seconda si incupisce di molto ed è ambientata negli anni dell’occupazione giapponese. Se nella prima metà del film, i personaggi si muovono in un universo solare nel quale, anche nei momenti più drammatici (come l’arrivo della banda del nord che vuole aprire una nuova scuola di kung fu), i combattimenti sono solari e quando il protagonista, interpretato da Donnie Yen, lotta, lo fa sempre sorridendo e, di tanto in tanto, con intermezzi divertenti: un esempio perfetto è lo scontro con il capo della suddetta banda, che avviene nella casa di Ip Man, durante il quale il figlio del protagonista entra in sala sul triciclo dicendo che “mamma dice che se non attacchi si romperanno tutte le cose dentro casa”. Tuttavia, quando il Giappone invade la Cina, i toni si fanno nettamente più seri, i combattimenti sono molto più violenti e pesanti e anche la fotografia si incupisce, desaturando i colori brillanti che hanno dominato la prima parte del film.

Ip Man (Donnie Yen) sgomina un’intera banda armata.

Wilson Yip riesce a fondere alla perfezione wuxiapian e gongfupian, proponendo combattimenti a mani nude, con qualche rarissima eccezione, tipici del gongfupian, uniti ad acrobazie inumane e “superreali” (nel senso di “sopra il reale”, ovvero che superano la realtà) proprie del cinema wuxia. Ip Man, in questo modo, viene “supereroicizzato”, essendo un combattente straordinario ed imbattibile, capace di sgominare decine di nemici allo stesso tempo. Così, il protagonista diviene simbolo della resistenza cinese contro la forza dell’invasore ed anche il kung fu assume un intento nazionalistico come accadeva nel cinema di Bruce Lee: Ip Man, dunque, viene ritratto come una sorta di precursore dell’ eroe-Lee. Esemplari sono le scene che coinvolgono il protagonisti ed i dipendenti della fabbrica di cotone del suo socio: Ip Man insegna loro il wing chun in modo che possano difendersi dai giapponesi e dalla banda di mascalzoni o, ancora, i lavoratori combattono proprio contro quella banda. Chiari i riferimenti ai gongfupian interpretati da Bruce Lee, soprattutto a L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente e Il furore della Cina colpisce ancora, che contribuiscono ad una ideale sovrapposizione tra Ip Man e Lee.

La regia di Wilson Yip è eccezionale, riesce a rendere le complesse coreografie dei combattimenti (curate, tra gli altri, da Ip Chun, figlio maggiore di Ip Man) facilmente leggibili, grazie anche ad un montaggio che riesce ad accelerare nei momenti più concitati senza, tuttavia, infastidire lo spettatore. Lodevole l’interpretazione di Donnie Yen, che si dimostra uno dei migliori artisti marziali del cinema hongkongese nonché un ottimo attore, capace di fornire un’interpretazione intensa, tanto nei momenti più leggeri quanto (e soprattutto) in quelle più drammatiche: grazie, in primis, alla sua prestazione e, in secundis, ad una sceneggiatura di qualità, la seconda parte del film riesce a coinvolgere e, nel finale, ad emozionare lo spettatore. Ip Man risulta essere uno dei film imprescindibili del cinema d’arti marziali del terzo millenio. Consigliatissimo.