Buongiorno Nicola! Con quali film e in che periodo della tua vita nasce la passione per il cinema?
Ciao Massimo, la passione per il cinema è qualcosa che coltivo fin da tenera età. All’inizio sono stato influenzato da mio padre. Guardavamo film come: “Ritorno al Futuro”, “La Mummia”, “The Mask”, “Jurassic Park”, “Tremors”, “Men in Black”. E vari film con Bud Spencer e Terence Hill, ecc. Quindi posso dire che fino a 7/8 anni il mio cervello era bombardato da film degli anni ’80 e ’90. Poi con l’inizio di un proprio gusto personale, mi avvicinai al mondo dell’horror. Con film come “Non Aprite Quella Porta”, “Wrong Turn”, “Le Colline Hanno Gli Occhi”, “Fear Of The Dark”. Fino ad arrivare ad autori come John Carpenter, Sam Raimi, Wes Craven, David Cronenberg e Tobe Hooper.
Seguo anche artisti che lavorano in differenti generi cinematografici. James Wan, Edgar Wright, Mel Brooks, Monty Python, fino ad arrivare al compianto Rod Serling. La passione invece nel voler entrare nel mondo del cinema si è concretizzata oramai nel lontano 2012 quando girai i miei primi lavori ultra amatoriali. Ma la passione del narrare è quella che soprattutto mi porta avanti. Il creare delle storie, delle atmosfere, delle immagini composte in maniera personale, dalla scrittura al montaggio. All’inizio delle elementari iniziai già in questo intento, ovvero raccontare.
Scrissi una trentina di piccoli racconti dell’orrore influenzato da “Piccoli Brividi”. Mi divertivo un casino, inventare storie, personaggi, azioni. Questa mia passione nel cimentarmi nel cinema fu più forte quando mi iniziai ad appassionare ai film di Wright e Pegg (infatti il mio nome “d’arte” è “NicolaPegg” proprio in omaggio all’attore inglese). Film come “Shaun Of The Dead” ma soprattutto “Hot Fuzz” mi hanno fortemente influenzato. A livello tecnico, ovvero fotografia e montaggio, il mio banco di studio è stata la serie tv britannica “Spaced”, degli stesso Wright e Pegg.
Hai una particolare predilezione per Dylan Dog, o sbaglio?
L’indagatore dell’incubo è un personaggio che semplicemente adoro. Un antieroe misterioso ed affascinante, calato in un contesto fortemente ispirato da storie “Ai Confini Della Realtà”, con dei personaggi secondari carismatici e altrettanto tenebrosi. In diversi cortometraggi omaggio la serie. E non nego che mi piacerebbe molto fare qualche trasposizione di alcune stupende storie scritte dal genio Sclavi.
Per parlare del mio approccio con “Dylan Dog” però, devo far un salto nel tempo di molti anni, all’incirca una decina. All’epoca i miei primi passi col mondo dei fumetti furono con la serie “Zagor” che però ci mise poco a stancarmi e passai successivamente a “Tex” (qui deriva anche la mia influenza del genere western). Lessi molti fumetti delle avventure di Willer e Carson ma più continuavo nella lettura e più le storie mi risultavano ripetitive.
Così un giorno provai a leggere “Dylan Dog”, ed il primo albo che comprai fu il n° 85 dal titolo “Fantasmi”. Da subito mi prese tantissimo! Tetro, violento e misterioso, da quel momento (in maniera un po’ altalenante negli ultimi anni) è il fumetto che seguo. In questo periodo ho anche iniziato col leggere fumetti come “The Haunt Of Fear”.
Il tuo primo cortometraggio è, se non erro, “Evil doll”. Ce ne puoi parlare?
“Evil Doll” fu il primo cortometraggio che girai ben 5 anni fa. Uno spudorato prodotto preso quasi pari pari dal film di Wan, “Dead Silence”. All’epoca avevo bisogno di confrontarmi con opere vere per poter capire se si possedevano abilità nella messa in scena. Fu una realizzazione molto travagliata con tanti problemi tecnici e organizzativi. Per non parlare di buchi di trama assurdi e continuità fatta alla “cazzo di cane”, per citare “Boris”. Ma fu comunque un primo passo per arrivare a lavori più professionali.
Nello stesso anno, il 2012, giri un altro corto horror, “A fucking fear of clowns”…
“A Fucking Fear Of Clonws” fu il primo cortometraggio che portai alla 2° edizione del Fi-Pi-Li Horror Festival di Livorno, confrontandomi per la prima volta con un pubblico. Anche questo scopiazzato da un altro film con Simon Pegg dal titolo “A Fantastic Fear Of Everything”. Fu anche il primo di tanti cortometraggi in cui la realtà e la finzione si mescolano disorientando lo spettatore su ciò che accade realmente.
L’anno dopo dirigi “La vendetta di Kevin Hole”. Di cosa parla questo tuo corto?
Nel 2013 realizzai “La Vendetta di Kevin Hole”, ultimo cortometraggio preso da un’opera esistente, ovvero “Death Sentence”. Primo cortometraggio in cui si girarono delle scene d’azione, trattava il tema del tradimento e vendetta.
Tra il 2015 e il 2016 firmi tantissime regie di corti. Cominciamo a parlare di questo tuo fruttuosissimo biennio da “Visioni”…
“Visioni” è stato il primo cortometraggio horror in cui ho inserito un’entità creata da zero. Fu anche utilizzato per la prima volta l’obiettivo fish eye in alcune inquadrature. L’opera è un chiaro omaggio ai clichè horror, dalle bambole che si muovono, ai mostri striscianti, alle risate di bambini. Riferimenti espliciti anche allo stile di Sam Raimi, con close-up estremi e movimenti veloci con piani olandesi.
“Halloween reincarnation” di cosa parla?
Questa opera come si evince dal titolo è un sentito omaggio al grande “Halloween” di Carpenter. Feci una ricerca tecnica sulla messa in scena del film originale per ricreare le stesse atmosfere ma con sempre un’impronta personale. Il corto narra la storia di Nick Castle, l’uomo in cui lo spirito di Micheal Myers si è annidato, pronto a massacrare chiunque incontri per la sua strada. Il risultato finale fu soddisfacente per i mezzi utilizzati, tant’è che mi piacerebbe farne un sequel. Ed in realtà parte dello script è già in lavorazione.
“Qualcuno ci chiama” è un chiaro e sentito omaggio agli episodi di “Ai confini della realtà”…
“Qualcuno Ci Chiama” e “Life in a Dream” sono due cortometraggi che si rifanno alla serie tv degli anni ’60 “Ai Confini Della Realtà”. Le opere di Serling sono state molto significative per la mia crescita e maturità artistica, oltre ad essere la mia serie tv preferita. “Life in a Dream” cita in parte il primo episodio della serie “La Barriera della Solitudine”. Un ragazzo si risveglia in una stradina di campagna e non sa chi è. Proseguendo col suo viaggio s’imbatterà in un paese “fantasma” dove il concetto di vita è solo un’illusione.
Il corto tratta il tema dei sogni (ricorrente nei miei lavori) e il concetto del “miracolo della vita” attraverso una consapevolezza finale. “Qualcuno Ci Chiama” invece affronta il genere dei “rapimenti alieni” in una forma più filosofica, trattando il tema della “crisi d’identità” e dei grandi misteri dell’universo, “Siamo soli nello spazio?”. Il finale rimane senza alcuna risoluzione. Proprio perchè ci sono dei quesiti a cui la mente umana non può risolvere. E questa sensazione di smarrimento si propaga per tutto il corto.
“A wistful memory” rappresenta, forse, un cambiamento nei contenuti delle tue opere…
“A Wistful Memory” rappresenta una delle prime opere in cui l’elemento narrativo classico del “viaggio dell’eroe” viene meno per lasciare uno spazio maggiore alla morale ed all’evocazione che determinate immagini scaturiscono nello spettatore. Un viaggio onirico fortemente caratterizzato da una messa in scena orrorifica. In realtà vuole raccontare un profondo dramma tra madre e figlia.
Con un plot twist finale dettato da l’unica (quasi) battuta. Un’opera che in qualche modo a distanza di un anno esatto anticipava la volontà nel voler realizzare un cortometraggio più “impegnato” a livello concettuale, come è stato col recente “Shapes”. Tra l’altro entrambi presentati come progetto finale per gli esami accademici di cinema.
“Little trouble in big eatery” è una commedia horror che omaggia I lavori prodotti dalla Troma…
“Little Trouble in Big Eatery” è una “lettera d’amore” a vari film cult con cui sono cresciuto e soprattutto col cinema di Sam Raimi. All’interno dell’opera si può fare una vera e propria “caccia alle citazioni”, mi sono divertito un mondo durante la stesura dello script. La cosa anche interessante è che ci sono 2 diverse tipologie di citazioni. Quelle esplicite e quelle implicite. Ovvero: Sean, il protagonista è un videotecaro e di per sé cita in maniera esplicita varie pellicole.
Ma vi sono molte citazioni inscenate in maniera esplicita, con dei siparietti che strizzano l’occhio a determinate scene di film cult. Il corto è anche caratterizzato da una forte componente splatter. Comprai una decina di chili tra marmellata di lampone, ketchup e vari coloranti alimentari per inscenare la sequenza in cui Julia colpisce con veemenza lo chef Thomas in un tripudio di sangue e schizzi da ogni angolazione. Ovviamente il titolo dell’opera cita la pellicola del 1986 “Big Trouble in Little China” di John Carpenter.
Come nasce il progetto di “Funny dice”?
Questo progetto nasce dalla volontà di mescolare una messa in scena orrorifica con una struttura narrativa drammatica, trattando un tema più maturo rispetto al solito. Con lo stesso team di lavoro di “Little Trouble in Big Eatery” si girò anche questo cortometraggio. La scelta della fotografia in B/N è una scelta puramente narrativa. La quale sottolinea la condizione psicologica in cui si trova la protagonista, afflitta da una profonda crisi depressiva dovuta ad un lutto. Invece nella scena finale il colore appare proprio perchè c’è stato un cambiamento importante nella protagonista che l’ha portata a riprendere in mano la propria vita. Di fatti è considerata un’opera a colori.
“The midnight man – il gioco di mezzanotte” cosa racconta?
“The Midnight Man – Il gioco di mezzanotte” è un progetto che ho realizzato puramente allo scopo di farsi un po’ notare su Youtube. Ho inscenato una storia narrativamente lineare ispirata alla leggenda metropolitana molto in voga del “gioco di mezzanotte”. Lo script è molto semplice, una ragazza che evoca un’entità demoniaca e tenta successivamente di rimandarla nella sua dimensione. Dopo un inizio con scarsi risultati è iniziato a diventare sempre più “popolare” nel web arrivando ad oltre 10.000 visualizzazioni.
“Shapes” è il tuo ultimo lavoro, a parere dell’intervistatore anche il tuo miglior lavoro. Da dove nasce l’idea di questo splendido corto?
“Shapes” è un cortometraggio molto personale. Si discosta molto dalle mie precedenti opere, sia dal punto di vista fotografico che narrativo. Come precedentemente detto paragonabile solo in parte ad “A Wistful Memory”, “Shapes” è un punto d’arrivo per certi aspetti ed un punto di partenza per altri. L’opera tratta il tema pirandelliano di “crisi d’identità” (tema già affrontato in diverse forme con lavori come “Qualcuno Ci Chiama” e “Riflesso o Riflessi”).
Tutti noi nel corso della vita recitiamo delle parti, con i nostri genitori, con la nostra fidanzata, con i nostri amici, ma come siamo veramente se non avessimo tutte queste influenze dettate dalla gente che ci circonda e dall’ambiente in cui ci troviamo? Questa domanda a sua volta ne suscita un’altra che è il punto di riferimento di tutta l’opera, ovvero: che fine ha fatto la semplicità? Il cortometraggio ha un’atmosfera particolare, alcune tracce sonore sono prese direttamente dalle vibrazione emanate da alcuni pianeti del sistema solare messe a disposizione dalla Nasa e reperibili in tutto il web. Come i pianeti avvolti dall’oscurità dello spazio, anche la nostra protagonista è avvolta dall’oscurità dell’ignoto.
Hai girato anche il video promozionale del Fi-Pi-Li Horror Festival di quest’anno!
Quest’anno ho avuto l’opportunità di girare il video promozionale per il Fi-Pi-Li Horror Festival di Livorno. Partecipando ormai da ben 5 anni, sono molto legato a questo evento ed ho voluto realizzare uno spot che inglobasse l’essenza orrorifica e fantascientifica del festival.
Quali sono i tuoi horror preferiti, i tuoi cult?
Di film horror ne ho visto veramente tanti, la mia videoteca personale e composta da un terzo solo di film dell’orrore. Ma le opere che ritengo dei veri cult dell’horror per la mia influenza artistica sono: la trilogia de “La Casa”, “Halloween”, “Il Seme Della Follia”, “La Cosa”, “Bad Taste”, “Splatters – Gli Schizzacervelli”, “Creepshow”, “La Mosca”, “Lo Squalo”, “Shining”, “Non Aprite Quella Porta”, “Saw”, “Babadook”, “Le Colline Hanno Gli Occhi”, “Scream”, “Insidious” e “Nosferatu” di Murnau.
Ce ne sono tanti altri film cult di diverso genere come “Essi Vivono”, la “Trilogia del dollaro”, “Il Grande Lebowski”, “The World’s End”, “The Blues Brothers” “Frankenstein Junìor”. Vedo spesso cortometraggi indipendenti “horror”, che puntano solo a scene gore di discutibile qualità, tralasciando del tutto qualsivoglia forma narrativa o fotografica degna di nota. Ma ovviamente c’è anche molta gente in gamba che deve far i conti col problema del budget zero, riuscendo comunque ha realizzare delle opere di pregevole fattura. Ed è lì che si vede chi ha realmente talento e chi dice d’averlo.
Pensi che i festival abbiano ancora una funzione importante nella promozione da parte dei registi delle proprie opere?
Assolutamente si! I festival sono l’unico (a mio avviso) modo per poter farsi notare da altre persone che lavorano nel campo. Sono anche luoghi in cui ci si confronta col pubblico e con altri autori, scambiandosi pareri e consigli. In alcuni casi si può stringere dei vero e proprio sodalizio per realizzare opere comuni di maggiore qualità.
A quale progetto stai lavorando in questo periodo?
Questa estate realizzerò un cortometraggio a episodi dal titolo “Leggende Venete”. Un progetto finanziato in parte dal Comune del mio paese per la rappresentazione di alcune leggende e storielle popolari che io ho romanzato in chiave orroristica. Con uno stile che strizza l’occhio a film come “Creepshow” e racconti come “Tales From the Crypt”. Successivamente mi piacerebbe girare un altro corto “impegnato” come “Shapes”. Ma sono molto lunatico dal punto di vista artistico, quindi nulla è reale e tutto è lecito.