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“In guerra”: le lotte operaie di Stéphane Brizé

Ken Loach ha detto: ‘What I’ve always tried to do is just to capture the truth of the moment.’

En Guerre è cinema politico, certo, ma è soprattutto cinema del presente, che cattura il “qui e ora”. Lo fa catapultando lo spettatore direttamente in trincea, questo vuol dire En Guerre, “In Guerra”. Perché quella che combattono gli operai della Perrin nella pellicola di Stéphane Brizé è una guerra. Lo fanno in prima persona, faccia a faccia col nemico, che sia il CEO di una grande azienda o il poliziotto che cerca di sedare la protesta. Il regista giunto alla sua ottava prova, ha sempre dimostrato di avere a cuore l’esistenza dell’individuo diviso tra la sua collocazione sociale e lavorativa e quella più intima e familiare.

Lo ha fatto sin dal suo esordio nel 1999 con Le bleu des villes e a continuato a farlo nel 2012 con Quelques heures de printemps. Lo stesso anno in cui Ken Loach rifiutava con un gesto clamoroso e provocatorio il premio al Torino Film Festival per esternalizzazione alla Cooperativa Rear dei servizi di pulizia e sicurezza del Museo Nazionale del Cinema (MNC). Poi è arrivato La loi du marché nel 2015. Una nuova collaborazione con Vincent Lindon, il miglior attore francese della sua generazione.

La disoccupazione dei cinquantenni , il protrarsi della vecchiaia sul piano umano, il sopravvento della classe borghese-capitalista. Qui nello specifico il dislocamento o la chiusura delle fabbriche per l’interesse dei pochi a discapito dei tanti.

En Guerre ci va duro pesante. Il film non è una semplice ramanzina ai meccanismi ipocriti e disumani delle multinazionali, bensì un violento atto d’accusa.

Tutto filmato e recitato come un autentico docu dramma in prima linea. Da una ventina d’anni si chiama giornalismo embedded, quella forma di giornalismo di guerra che permette di raccontare il conflitto dal punto di vista del soldato. En Guerre gli assomiglia molto. Perché gli operai della fabbrica, guidati da Vincent Lindon sono in effetti soldati, che non ci mettono solo la faccia, ma tutto il loro corpo per combattere per il loro lavoro e la loro dignità. Straordinario il lavoro che il regista fa sul corale, cinematografico e metacinematografico.

Questo riguarda sia l’uso sapiente e cumulativo delle inquadrature e del sonoro ambientale, sia la recitazione, genuina e partecipativa, quasi partigiana degli attori. Alcuni dei quali alle prime armi, esordienti come Mélanie Rover, nel ruolo di Mélanie. Tutti in prima persona col proprio nome: Grosset nel ruolo di Grosset, Hauser nel ruolo di Hauser, Olivier in quello di Olivier. Abbattere il confine tra finzione e realtà. A differenza delle precedenti prove, il regista, il film mostra poco della vita privata. Ma quello che mostra è più che sufficiente per definire senza sbavature il personaggio di Laurent Amedeo, che stringendo il piccolo nipote appena nato, capisce quello che dovrà fare.

Non solo per sé, ma per il futuro di tutti noi.