Due ideogrammi che stanno per Fiori di Fuoco, i fuochi d’artificio, ma anche il dualismo tra i toni elegiaci del melo e il gangster movie. Hana-bi è il settimo film del regista giapponese Takeshi Kitano, meglio conosciuto in patria con lo pseudonimo di Beat Takeshi. Un comico, che insieme al suo amico Kiyoshi Kaneko, aveva formato il duo Two Beats specializzandosi in manzai, sketch comici stile slapstick. Quindi, quasi per caso il suo esordio alla regia con Violent Cop. Un poliziottesco che strizzava l’occhio al recente revival tarantiniano, ma al quale, senza alcuna precisa spiegazione, il regista Kinji Fukasaku (Tora! Tora! Tora!, Battle Royale) decise di rinunciare, spianando la strada a Beat Takeshi. Nessuno tra i produttori poteva mai immaginare quanto sarebbe successo di li a poco. Prima il flop commerciale, poi la carta bianca per i successivi film di una nuova stella del cinema d’auteur nipponico. Non apprezzato in patria, ma idolatrato in Europa. Tanto che, proprio Hana-Bi, trionfò a Venezia, portandosi a casa il Leone d’Oro nell’afoso settembre del ’97.
La storia è lineare. Nishi (Beat Takeshi) è un ex poliziotto duro, violento, sempre pronto ad utilizzare metodi poco ortodossi. Non uno stinco di santo insomma, ma con un suo codice etico e morale. L’uomo ha una moglie malata terminale di leucemia, soffre per la morte di sua figlia, per essere parzialmente responsabile per quella di un suo collega e dell’incidente che ha costretto sulla sedia a rotelle il poliziotto e amico Horgie. Il mondo gli sta crollando addosso. Nishi, sotto consiglio del medico, decide allora di trascorrere gli ultimi momenti della moglie al suo fianco. Prima però necessita di soldi. Compie una rapina, spedisce parte della refurtiva alla vedova del suo collega e al povero Horgie, invitandolo a ricominciare a dipingere. Il resto lo usa per portare la moglie in vacanza. Un buffo e divertente viaggio per il Giappone, alternato dalla violenza che di tanto in tanto affiora nel momento in cui la polizia e la yakuza, sono ormai alle sue calcagna.
Un leone dalla testa di girasole, gufi con fiori al posto degli occhi, un’orca floreale, libellule orchidea, una donna giglio nel suo elegante kimono, altri meravigliosi quadri. Il contrappunto poetico alla violenza gratuita per le strade della città. Hana-bi vive di emozioni implose e parole non dette o forse non necessarie. Un’opera d’arte per niente astratta, che gioca col dualismo ipnotico tra l’iconografia pittorica giapponese (i quadri sono stati realizzati proprio da Kitano) e fiotti di sangue urbano. Poi lo schizzo di vernice di Horgie, sull’ideogramma che vuol dire “suicidio”, preludio di un finale tanto amaro quanto inevitabile. Tutto in riva al mare, in pieno stile Kitano (Sonatine, L’estate di Kikujiro). La catarsi allo stato puro, dove si espiano i peccati della vita terrena. Perchè nel cinema del regista giapponese, si nasce felici e si ha l’obbligo di morire nella stessa maniera. Kitano coniuga perfettamente il cinema di genere orientale con quello americano, passando attraverso l’immobilismo tecnico europeo.