Impossibile non parlare di Gemini Man senza sollevare il dilemma etico dei progressi tecnologici applicati alla settima arte.
Spieghiamoci meglio. La pellicola di Ang Lee è un giocattolo per l’intrattenimento a budget elevatissimo (circa 138 milioni di dollari).
La storia è quella di Henry Brogan (Will Smith) il miglior killer a disposizione del governo americano, che entra in crisi di coscienza. Dopo una missione in Belgio, nella quale uccide un presunto terrorista, che successivamente scoprirà essere solo un biologo molecolare. Henry non riesce più a guardarsi nello specchio, decide così di smetterla e rassegna le dimissioni.
Scopre però che il governo lo vuole morto: a causa della società terroristica Gemini, guidata dal vecchio partner Clayton Verris (Clive Owen). Quindi Henry fugge insieme alla bella Danny Zakarewski (Mary Elizabeth Winstead) da un giovane e letale sicario che gli è stato messo alle corde. Spoiler Allert: il killer è un clone di Henry appena 20 enne, nel pieno delle forze e capacità, addestrato ad uccidere senza troppi scrupoli.
Gemini Man si trasforma quindi in un tiratissimo action fantascientifico divertimento videoludico e una vaga riflessione esistenziale che rimanda al Face/Off di John Woo.
In effetti il progetto è molto “nineties”, per atmosfere e cliché narrativi e c’è persino Jerry Bruckheimer come produttore. Poi scopri che in effetti il film, nato da un’idea di Darren Lemke, nel 1997 doveva essere diretto da Tony Scott e che ha avuto diversi rimaneggiamenti alla sceneggiartura da parte di gente come Andrew Niccol e Brian Helgeland.
Ma come dicevamo il cuore della pellicola è il polverone etico legato ai deep fake e alla possibilità di riportare Will Smith ai tempi di The Fresh Prince of Bel-Air.
La tecnologia in questione sviluppata in casa Paramount, è la stessa utilizzata negli ultimi decenni per creare mostri e creature fantastiche a immagine e somiglianza degli attori che li interpretano.
Uno dei requisiti necessari per far ciò è stato quello di aumentare il numero dei frames per secondo, 120 contro i 24 di un film canonico. L’effetto è simile a quello che abbiamo visto con Lo Hobbit. In teoria dovrebbe essere più simile all’occhio umano, in pratica sembra di vedere una telenovella brasiliana anni 80. L’immagine totalmente flat e noiosamente grigia. Non è solo colpa della tecnologia, ci sono anche le sale a non essere attrezzate.
Ma soprattutto il punto è: cosa succederà quando riusciranno a migliorare queste innovative tecniche e gli esercenti di tutto il mondo adegueranno le loro sale?
Abbiamo già visto in The Irishman attori come De Niro ringiovanire di 30 anni e se decidessero di riportare in vita Clark Gable e Vivien Leigh per fare un sequel di Via col Vento?
Cosa succederà con i diritti d’immagine ma soprattutto con la privacy e la volontà di chi non c’è più? Tutte domande legittime che ovviamente non hanno a che fare con la valutazione squisitamente critica di Gemini Man che alla fine a parte qualche interessante situazionismo e un paio di scene d’azione, è un gradevole filmetto da cassetta senza molte pretese.
Ps si può ancora definire un film “da cassetta”, per spiegare che si tratta di un prodotto onesto ma niente di più? Cioè i post millennials lo capiranno o dobbiamo parlare di film da streaming?! Ah benedetta tecnologia!