Brasile, anni Sessanta. Irrompe nelle sale di Rio de Janeiro il Cinema Nôvo: un cinema radicale, rivoluzionario, a metà tra realismo documentaristico e surrealismo, modernità e folclore, storia e mito.
Stiamo parlando del movimento cinematografico che più influenzò il cinema brasiliano, fino ad allora dominato dalla popolare chanchada (o commedia musicale). Su ispirazione di neorealismo italiano e Nouvelle Vague, il Cinema Nôvo venne lanciato da alcuni giovani registi. Questi avevano l’ambizione di realizzare film che mostrassero i sentimenti e i problemi della popolazione non istruita del loro Paese.
Il film documentario Cinema Nôvo (Brasile, 2016), realizzato da Eryk Rocha – figlio di Glauber Rocha, il più importante regista del movimento – non fa altro che mettere in scena frammenti di questa storia. Visionario anch’esso, come il cinema che vuole riportare sul grande schermo, Cinema Nôvo ha il grande pregio di non essere mai didascalico.
Una chicca imperdibile per chi è appassionato del genere, ma anche per i semplici curiosi che desiderano avvicinarsi al movimento.
Si vedranno le forme stilistiche tipiche come la macchina a mano, l’uso insistito dello zoom, il piano-sequenza, la scarsa enfasi durante le scene drammatiche, i tempi morti e i passaggi ambigui dalla fantasia alla realtà.
Maggiore attenzione è posta però sulla critica politica di cui fin dall’inizio si fecero portatori gli esponenti del Cinema Nôvo. Infatti i brasiliani dovevano diventare consapevoli della loro arretratezza vedendo i contadini alle prese con problemi legati alla propria sopravvivenza. Questo è ciò che veniva definito “l’estetica della fame”.
Rocha ambientava molti dei propri film nel sertão, l’aspra pianura nel nord-ovest del Brasile: girato in questi luoghi fu il suo lungometraggio più famoso, Il dio nero e il diavolo biondo (1964), nel quale viene mostrata l’oppressione che capi religiosi e violenti banditi esercitavano sui contadini. Questi ultimi erano i protagonisti anche di tante altre opere del movimento, come Vidas secas (Vite aride, 1963) di Nelson Pereira dos Santos e I fucili (1964) di Ruy Guerra.
Pur nell’unità di temi e ideali, ogni regista si caratterizzava per una propria peculiarità stilistica.
Rocha, ad esempio, si distingueva per zoom ostentati e un montaggio convulso, di cui si hanno tracce nello stesso Cinema Nôvo del figlio di Glauber.
Le strade di questi registi si diversificarono in modo definitivo nel 1969, quando nacque l’Embrafilme, l’ente che da lì in poi si sarebbe occupato dell’esportazione e del finanziamento dei film brasiliani. Rocha andò a lavorare all’estero e coloro che rimasero nel Paese si spinsero in direzioni differenti tra loro, facendo così perdere al movimento la carica dirompente dell’inizio.
Il documentario Cinema Nôvo ben rappresenta le tre tappe che il movimento visse in quei pochi ma sfavillanti anni. Partendo dalla sua entusiastica nascita grazie ad amici-registi che discutevano di cinema nei bar e passando per il periodo di grande successo al di fuori dei confini dell’America del Sud, si giunge infine al termine di un’arte la cui ambizione era quella di «cambiare il mondo» e che, se non è riuscita nel suo intento, quanto meno ha dato la spinta per una «nuova immagine del Brasile». E per fare ciò sono bastate, come sostiene Eryk Rocha, «idee in testa» e «telecamere in mano».