Il cinema e la musica sono sempre stati strettamente legati, sin dagli albori della settima arte. Nell’epoca del muto, per esempio, nelle sale cinematografiche la proiezione di un film veniva spesso accompagnata da una piccola orchestra che, dal vivo, suonava l’accompagnamento musicale del film; con l’avvento del sonoro, invece, la musica è diventata parte integrante del film. Ad ogni modo, è sempre stata la musica ad accompagnare la visione, l’udito come sostegno alla vista. Intra o extradiegetica, la colonna sonora è il contorno della portata principale del banchetto cinematografico, il film.
Tra gli anni ’30 e ’40, ha preso sempre più piede la corrente cinematografica dell’astrattismo, i cui film non volevano più raccontare storie ma trasmettere sensazioni, rendendosi avulsi da qualsiasi forma di narrazione. Il cinema astratto puntava alla rappresentazione di linee e figure geometriche per realizzare quello che veniva chiamato “cinema puro”, non più dipendente dalle storie e dalla narrazione. Cinema come arte assoluta, scollegata e indipendente dalle altre. Tra le opere più importanti abbiamo Symphonie Diagonale di Viking Eggeling e Anémic Cinéma di Marcel Duchamp, oltre alla serie di quattro opere di Walter Ruttman, Lichtspiel Opus I, II, III e IV.
Vi starete chiedendo, come mai queste due premesse così sconnesse? Ebbene, nel 1937 un pittore astratto, ispirandosi alle opere di Ruttman, realizzò uno dei più grandi capolavori del cinema astratto: An Optical Poem di Oskar Fischinger. Se, prima di questo film, era la musica a fare da colonna sonora ai film, in questo cortometraggio è il film a fare da “colonna visiva” alla musica, la celeberrima Rapsodia Ungherese n.2 di Franz Listz. Realizzato in stop motion, animando delle forme di carta sospese con dei cavi trasparenti, An Optical Poem traspone in immagini ciò che le sublimi note di Listz raccontano. Dei cerchi che si ingrandiscono e si rimpiccioliscono, si muovono da destra a sinistra e da sinistra a destra, ricchi di colori: Fischinger ci proietta in un viaggio allucinante nella musica del compositore ungherese. Quanto più ci si addentra nella trama sonora, tanto più lo schermo si riempie di figure geometriche che si muovono con estrema grazia ed eleganza e che sembrano uscire dal più allucinato dei trip causati da sostanze psicotrope, un trip che non stonerebbe in un film come Enter the Void di Gaspar Noè (il cui protagonista si chiama proprio Oscar… pura coincidenza?).
Il cinema, in questo corto, non è più qualcosa da vedere semplicemente ma è, soprattutto, qualcosa da ascoltare. E, soprattutto, An Optical Poem può esistere solo in relazione alla Rapsodia Ungherese n.2: se in qualunque altro film si cambiasse la colonna sonora, certamente il risultato finale sarebbe differente ma il senso dell’opera non verrebbe intaccata; se, invece, si provasse a fare la stessa cosa con An Optical Poem, esso cesserebbe di esistere in quanto An Optical Poem, ma verrebbe ridotto ad un ammasso di forme geometriche che si muovono. Mai, nella storia del cinema, un film è stato o sarà così fortemente dipendente dalla musica. Certo, alcuni registi girano certe scene pensando ad una precisa canzone, tanto da farla sentire sul set durante le riprese, ma quelle stesse scene non perderebbero la propria raison d’être, se venissero accompagnate da una canzone diversa.
Oskar Fischinger, con questo vero e proprio capolavoro, ha rivoluzionato il modo di intendere il rapporto musica-immagini, proponendo una nuova prospettiva dalla quale vedere il cinema e la sua relazione con le altre arti. Un esperimento così potente e che mettesse così tanto in discussione la nostra amatissima settima arte non verrà mai più fatto.