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Chez nous – A casa nostra

Hénart è una cittadina fittizia nella zona del Pas de Calais, un dipartimento francese della regione Alta Francia. Da qui parte l’Eurotunnel che collega il continente con la contea del Kent in Gran Bretagna. Non è una zona scelta a caso dal regista Lucas Belvaux per ambientare la sua storia. Chez nous – A casa nostra è infatti un operazione cinematografica fortemente attuale e molto politica. Qui vive Pauline Duhez sulla trentina, infermiera molto amata dai suoi compaesani.

Pauline è figlia di un ex militante comunista, uno di quei sessantottini che hanno partecipato al Maggio Francese, urlando per strada “Il est interdit d’interdire”. Nonostante ciò Pauline non ha una precisa idea politica. Più che altro è attenta e sensibile alle necessità della gente del suo paese. A distanza di anni dall’ultimo incontro, la donna, madre single di due bambini, riprende una relazione sentimentale con un suo vecchio compagno di liceo Stéphane, detto Stanko, insegnante di calcio di suo figlio.

L’uomo ha un passato (e anche un presente) politico tra le frange più estreme, violente e xenofobe della zona. Un picchiatore fascista insomma. Quando il dottore e politico Philippe Berthier le propone di candidarsi come sindaco per un neo partito moderato ma con connotazioni destrorse, Pauline entra in conflitto con il padre e sarà costretta a prendere decisioni dolorose e potenzialmente esiziali, per lei e per la sua famiglia.

In una Francia multietnica, che condanna l’anima nera che si nasconde dietro personaggi ambigui e pericolosi come Marine Le Pen, esiste anche la facile tentazione da parte del popolo ad una deriva antieuropeista, autarchica e razzista.

Noi ne sappiamo qualcosa. Il film di Belvaux spiega a chiare lettere e con semplicità disarmante, con quanta facilità queste idee, immediate, bigotte e di facile presa, possano far breccia anche nel cuore e nell’animo politico di chi per anni è cresciuto con principi opposti o comunque moderati. Il linguaggio filmico del regista ambisce a quello dei Dardenne, ma non arriva a quei livelli narrativi. Resta però una coraggiosa opera di denuncia, neutrale e mai urlata nei confronti di queste derive nazionaliste che accomunano molti paesi europei. L’orgoglio di popoli convinti di perdere la propria identità culturale o, peggio ancora, di essere sotto attacco da parte della “invasione mussulmana”.

La parabola di Pauline viene ricostruita efficacemente dal regista grazie ad una sorta di trance ipnotica che le impedisce di avere una reale coscienza del suo ruolo di madre, figlia e di professionista. Metafora dello strisciante populismo che si sta insediando in luoghi come il nord della Francia, paragonabile per certi versi alla conversione leghista di alcune regioni del sud Italia.

La pellicola si avvale della straordinaria interpretazione di Émilie Dequenne e di un solido messaggio politico e sociale che compensa la pavida e piatta regia. Peccato altrimenti ci saremmo trovati davanti un Ken Loach francese e avremmo urlato al capolavoro.

Un film da vedere (anzi da ascoltare) per capire.