TORINO 34
Messico, una fabbrica di automobili, dei dipendenti iniziano la giornata col quel procedere lento e negligente caratteristico delle regioni e degli stati del sud, luoghi dove il tempo viene assaporato, del tempo si è complici e non schiavi.
Un contesto lavorativo idilliaco che subisce un cortocircuito quando l’anziano padrone dell’azienda, la Maquinaria Panamericana, muore. Con Don Alejandro non va via soltanto un capo a cui tutti erano sinceramente affezionati, ma sta per scomparire una realtà protetta: la fabbrica infatti è piena di debiti e il baratro per ognuno di loro è vicino.
Il direttore generale convince tutti che c’è ancora speranza, una possibilità per salvaguardare il lascito di Don Alejandro. Così si barricano dentro l’azienda non comunicando a nessuno che il principale è morto.
È chiaramente un tentativo inutile di conservare qualcosa che si è già rotto, tra promesse fasulle e un prolungarsi di una routine che non può più appartenerli.
Joaquín del Paso traccia uno spaccato di disperazione contenuta, di una paura riflessa attraverso azioni e personaggi grotteschi che non possono, non sono in grado di varcare il cancello anche quando la fine si concretizza dinanzi ai loro occhi.
Impauriti, incapaci di qualsiasi cambio di direzione, come macchine fuori uso, subiscono quel microcosmo che li ha cullati per anni, accompagnati da quel sapore antico restituito dagli immobili interni degli uffici e dei corridoi del posto di lavoro dove lo squillo dei telefoni prima una distrazione, si è tramutato in condanna.
Maquinaria Panamericana è un esordio lucido che sfrutta la commedia e la farsa per evocare l’angoscia che ci assale quando stiamo per perdere l’unica certezza della nostra vita, quando l’ottimismo non è più uno stato mentale ma un’amara illusione.