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Too Old To Die Young – solo Dio perdonerà Refn

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La storia inizia con l’omicidio di un poliziotto cattivo. Il suo collega Martin (Miles Teller) ne rimane invischiato. Questa città sembra una palude che inghiotte tutti ed ogni cosa. Los Angeles c’è ma non si vede, si respira. E’ un non luogo funzionale per descrivere i margini del terrore sociale, similmente alle metropoli jarmuschiane. Potremmo anche chiamarla “Distopiawood”. Come in un libro di James Elroy, qui ci sono poliziotti corrotti, femme fatale, tossici, culti spiritici centroamericani, delinquenti, maschi alpha tutti d’un pezzo, tough guies à la Bogard, Ma soprattutto tanta meschinità umana, pornografia, pedofilia e perversione. In Too Old To Die Young si avvertono in lontananza le luci della City of Angels di Raymond Chandler in particolar modo The Big Sleep. E forse la citazione migliore per descrivere Martin ce la regala proprio Marlowe: “Se fossi un duro, non sarei vivo, se non fossi dolce, meriterei di vivere”.

La complessità del suo personaggio, sembra chiara sin dal primo episodio.

Refn ce lo presenta per strada insieme al suo collega Harry, ma lo definisce poco dopo, ritraendolo davanti ad una bandiera americana. Poi appare un istrionico William Baldwin nei panni di Theo, a casa possiede un telefono d’oro, simbolo di opulenza, come quello di Coppola nel Padrino o come quello che Warhol regalò a Jim Morrison nella visione al peyote di Stone. Theo catechizza Martin: “You’re an american boy, beautiful like Elvis”. Refn sembra volerci dire qualcosa, nel frattempo gioca. Riappaiono Felini, elemento ricorrente nella sua filmografia, e trait d’union con Il bacio della Pantera di Jacques Tourneur e con il suo The Neon Demon. Poi anche altri animali che funzionano come estensione allegorica di alcuni personaggi della serie.

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Si tirano le prime conclusioni: c’è un poliziotto con un debito da onorare, sembra essere metafora di un’intera città o addirittura di un’intera nazione. Poliziotto di giorno e spietato killer di notte. Come l’America buonista e disneyana dell’american pie e quella che per anni ha interferito nel naturale sviluppo socio economico del Sud, del Centro America e non solo.

Quindi l’attenzione narrativa si sposta su Juan (Auguro Aguilera) e l’espírito di Magdalena. Lui nipote di un boss e la madre a cui il fratello devoto (stanco e ormai in fin di vita) giura vendetta.

Non ci sono protagonisti e antagonisti, nessuno è veramente buono o cattivo. Solo dualismi. Un western urbano dove i personaggi si muovono innaturalmente lenti, come fossero zombie in un film di Leone. Quindi esplosioni di violenza, ma quello si sa, è un marchio di fabbrica del regista di Drive.

Refn esaspera le sue dipendenze, i suoi stilemi e i suoi vezzi. Ci regala fresques, trompe d’œil, simmetrie radiali e tanti rimandi all’iconografia cristologica. Un modo per ribadire la profonda ingerenza dell’arte pittorica sul gusto dell’immagine e dell’inquadratura. Citazioni colte com’è sempre stato nel cinema. Il Mantegna o Caravaggio per Pasolini o per Derek Jarman, William Hogarth per Kubrick, Escher per Argento, Hopper per Hitckcoock, e almeno un centinaio di pittori per il suo compatriota Von Trier. Ovviamente tutto è più facile quando il tuo direttore della fotografia si chiama Darius Khondji.

C’è anche tanto postmodernismo estetico e tante luci al neon (demon) di una città decadente dove vivono anime decadute. Quando poi si passa dall’altra parte del muro della vergogna, il Messico sembra una telenovela sotto MDMA. Polvere, sole, vento, Santa Sangre e psicomagia. Colori accesi con luci spente. Gli abiti a festa bellissimi e tamarri, a metà strada tra due Tony: Montana e i gitani di Gatlif.

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Refn gode per la sua attenzione maniacale ai dettagli. Per alcuni sarà sempre prostituzione estetica e voyeurismo narcisista. Ma come dice Diana (un’inquietante Jena Malone): “Il narcisismo non sarà più represso, ma venerato come virtù”. Diana, un nome non casuale, signora delle selve, protettrice degli animali selvatici e delle donne.

Intanto il delirio continua.

Il compiacimento omoerotico del battesimo alla cocaina di Jesus o al sesto episodio quando indugia sul corpo dell’attore mentre si veste di tutto punto. Eccessi su eccessi. Come il (neanche tanto celato) complesso edipico del ragazzo. La sessualità trasuda in molte parti della serie raggiungendo l’apice nella scena dell’hand job alla pistola della sensuale Yaritza (una bravissima Cristina Rodlo).

Refn mette tanta carne al fuoco e si prende tutto il tempo che vuole.

Il ritmo infatti esaspera lo stile e soprattutto non migliora l’approccio dello spettatore alla serie. Sembra tutto riprodotto ad un terzo della velocità. Alcuni direbbero lento, altri riflessivo.

Da un  punto di vista squisitamente tecnico, la scelta più coerente è quella delle panoramiche lente a scoprire personaggi o situazioni narrative, per poi ritornare al punto di partenza. Carrellate (una su tutte alla fine del secondo episodio per giustiziare i nemici), piani d’ascolto e qualche raro ma evocativo colse up.

La storia intanto si apre e si chiude, poi si riapre di nuovo. Sembra uno strano esperimento narrativo questo Too Old To Die Young. Refn a Cannes ha presentato il quarto e il quinto episodio. Poi ha dichiarato: “La televisione episodica era stata progettata per quando la televisione era un appuntamento settimanale su un canale analogico. Perché manteniamo ancora forme e costruzioni narrative di un tempo che nemmeno esiste più?”

Non si tratta di dieci episodi conclusivi, non è una serie antologica come Black Mirror, per intenderci. Ma Refn invita lo spettatore a usare Too Old To Die Young a proprio piacimento, 90 minuti o 13 ore fa lo stesso.

Menzione a parte poi va fatta per l’uso narrativo delle sonorità diegetiche. Urla, suoni ma anche frasi come nel quarto episodio, quando dalla radio un tizio dice: “Questi pagliacci sono solo spettatori. Sono solo un rumore bianco fuori campo, del crollo dell’impero americano, e se crolla l’America amico mio, torniamo al Medioevo. Capisci cosa intendo quando dico Medioevo? Umani ridotti a bande vaganti di barbari. Animali, ecco com’era il Medioevo”.


Attraverso momenti del genere diventa sempre più evidente la lettura sociopolitica di Too Old To Die Young.


La desolazione morale e l’imbarbarimento dei costumi, mettono in risalto anche riflessioni sull’etica del mestiere del killer. Si accompagnano anche con il decadimento fisico dei personaggi, con le loro malattie (demenza senile e sedute di chemio). Procedono parallele alla meschinità dell’universo dipinto da Refn. C’è anche spazio per isolate gocce di humor nero, davanti alla surrealtà del cameratismo dei poliziotti o agli omicidi tanto cruenti quanto fantasiosi. Un escalation a tratti comica.

Ma quando pensi ad una lettura univoca dell’opera, l’autore e il co-sceneggiatore il fumettista Ed Brubaker, ti portano su altre impervie strade.

Poi c’è la musica ossessiva di Cliff Martinez (collaboratore storico di Soderbergh e dello stesso Refn) sempre molto synth pop anni ’80, tra Giorgio Moroder e i Kraftwerk.

La storia, l’estetica, i luoghi, i suoni, le musiche, tutto diventa funzionale più alla forma che al contenuto, più ad una sensazione che ad un messaggio.  A volte sembra che Refn non sappia cosa dire, ma sappia come dirlo.

Si avvicina un finale criptico, dove ci si perde facilmente tra tarocchi, guaritrici New Age, un’Alta Sacerdotessa della Morte, la complessa sessualità e i deliri di onnipotenza di Jesus. Quindi la frase vagamente rivelatrice di Diana: “Gli esseri ieri sera mi hanno fatto avere una visione, sono svenuta e mi sono svegliata per terra con gli occhi così, ho visto più o meno le stesse cose, esplosioni di violenza, morte, ma questa volta, tutto ruotava intorno ad una donna”.

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Poi la strage finale di Viggo (John Hawkes) tra svastiche e dollari. Un atto d’accusa all’America capitalista, viziosa, armata e perversa. L’incontro con Diana in un classico dinner (in pieno stile Twin Peaks) a mangiare una torta di mele (“bye bye miss American Pie” cantava Don McLean). L’innocenza ormai è perduta e con essa i valori di un tempo. “The day the music Died” e non solo.

Il finale non spoilerabile da sapore tarantiniano si chiude con Rock Rolla, intramontabile pezzo del 1974 dei Judas Priest che dice: “Man eatin’ momma, steam driven hammer, sorts the men out from the boys.”

Cinema televisivo ipertrofico, stereoideo, antieroico, femminista (ma anche misogino), apocalittico, giustizialista/fascista, anticapitalista/antimaterialista e vagamente jodorowskyano. Anzi senza il vagamente. Materiale che farà discutere e dividerà fan accaniti e quei poveri malcapitati che speravano di vedere un nuovo True Detective.

Alla fine si ha l’impressione di essere stati dileggiati come spettatori e/o al contempo di aver assistito ad un’opera, tanto imperfetta, quanto geniale.

Ovviamente spetta a voi decidere.