Home Rubriche Outsider La poetica della negazione: Sicilia! di Jean-Marie Straub (1999)

La poetica della negazione: Sicilia! di Jean-Marie Straub (1999)

Nei meandri oscuri e talvolta ostili del cinema sperimentale ed avanguardista risiedono opere d’arte dei più vari tipi. Abbiamo l’anti-cinema di Carmelo Bene (è noto l’astio che la “macchina attoriale” C. B. nutriva per la settima arte); abbiamo il cinema dadaista di René Clair; abbiamo il cinema surreale e psichico di David Lynch. E gli esempi potrebbero dilungarsi per ore, se non giorni, in un elenco tedioso ed inutile di nomi ed etichette, operazione fine a sé stessa. In questo universo meraviglioso ed eterogeneo fatto di esperimenti affascinanti, oggi punteremo gli occhi su un duo di spicco del cinema d’avanguardia moderno e contemporaneo, quello formato da Jean-Marie Straub e Daniéle Huillet.

Venni a conoscenza di questa coppia (Straub regista e Huillet co-autrice dei loro film) leggendo “Cos’è l’atto di creazione?”, una brevissima raccolta di interviste che include anche l’omonima conferenza, di Gilles Deleuze, grande appassionato di cinema, il quale citò il duo connazionale parlando di “dissociazione vedere-parlare”, un’idea difficile da afferrare e far propria semplicemente leggendola, era necessario che la contemplassi, che la guardassi con i miei occhi. Così vidi la loro opera prima, un mediometraggio dal titolo Nicht versöhnt, che mi folgorò ed illuminò circa le parole di Deleuze. Decisi che ne volevo di più ed approdai sulle misteriose coste di Sicilia!, del 1998, un film che riuscì a risolvere quel dubbio residuo rimasto dopo la visione di Nicht versöhnt: non ero sicuro se la poetica di Straub-Huillet fosse un intellettualismo fine a sé stesso, un esperimento destinato a condurre ad un nulla artistico, o se fosse effettivamente una scintilla di genio.

Tratto da un romanzo del 1941, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, il film della coppia francese racconta di un siciliano tornato nella terra natia dopo 15 anni passati in America, ove sperava di trovar fortuna, rimanendo, però, deluso. La non-narrazione del film avviene per blocchi contigui che, però, non interagiscono tra loro, come episodi di serie diverse: il protagonista al porto; il protagonista in treno; il protagonista a casa della madre; il protagonista davanti una chiesa. Non v’è soluzione di continuità, i quattro blocchi sono (non-)legati da ellissi narrative che privano il film di qualsiasi certezza topo-cronologica: vediamo un cartello alla stazione che indica “Catania centrale”, nomi di paesi e città siciliani vengono spesso citati, ma non possiamo essere sicuri di dove il protagonista si trovi né possiamo sapere con fermezza se i quattro momenti si susseguano nell’arco di poche ore o di settimane intere. Anche la collocazione storica del film è assai nebbiosa ed incerta: abiti e scenografie, scarne e spartane, lascerebbero pensare ad un setting passato, probabilmente contemporaneo alla pubblicazione del romanzo, tuttavia v’è qualche piccolo dettaglio, come delle macchine in lontananza verso la fine del film, che pare ben più moderno.

“Perché questo articolo è intitolato Poetica della negazione?”, qualcuno potrebbe chiedersi, giustamente. La risposta ha appena avuto inizio: Sicilia! è un film che prende tutto ciò che appartiene all’arte cinematografica e, pezzo per pezzo, lo elimina, mantenendo fortemente vivo solo il gusto estetico della regia e della fotografia, che creano immagini indelebili, di una bellezza rara. Come è stato appena detto, la prima di queste negazioni è quella della struttura narrativa: la coppia Straub-Huillet, ripetiamo, priva Sicilia! di un vero e proprio scheletro narrativo. Da ciò deriva, quasi in modo naturale ed ovvio, quella “dissociazione vedere-parlare” descritta da Gilles Deleuze, il quale nella conferenza “Cos’è l’atto di creazione?” (e, quindi, nell’omonimo libro) dice:

Una voce parla di qualcosa. Si parla di qualcosa. Allo stesso tempo ci viene mostrata un’altra cosa. E infine ciò di cui si parla è sotto ciò che si vede. [Cos’è l’atto di creazione?, Gilles Deleuze, edizioni Cronopio, p. 17]

Ciò che avviene nel film, come già avveniva nel debutto Nicht versöhnt, è quanto segue: i dialoghi parlano sempre di un altro/altrove, non sono mai riferiti al qui e all’adesso della scena; tutto il lungo blocco narrativo a casa della madre, per esempio, è incentrato completamente sul passato, sull’infanzia del protagonista e sul padre, che ha lasciato la donna. Ciò che viene mostrato sono madre e figlio in una casa spoglia, povera ma ciò che viene narrato non viene fatto vedere: le immagini dicono “qui ed ora” ma le parole dicono “là e allora”. Ne deriva, inevitabilmente, l’enorme logorrea dell’opera, che ricopre di parole la mente dello spettatore, il quale fatica a seguire il filo del discorso. Ed ecco che, per riciclare le parole deleuziane, “ciò di cui si parla è sotto ciò che si vede”, l’attenzione del pubblico si perde nel labirinto delle parole del film, cercando il riparo nella rigorosa certezza delle immagini. L’aspetto visivo del film è molto debitore a quel rigido minimalismo del cinema di Robert Bresson: gli interni sono spogli, gli orpelli decorativi sembrano quasi banditi e, così, la bellezza visiva, proprio come nel cinema di Bresson e, forse ancor più, di Carl Theodor Dreyer, è in tutto e per tutto debitrice al mezzo filmico. La scenografia non può contribuire minimamente alla meraviglia estetica del film, come poteva accadere, per fare un esempio, ne Il Gattopardo di Luchino Visconti, e così Straub si deve affidare esclusivamente alla propria macchina da presa e alla stupenda fotografia di William Lubtchansky.

 

Terza ed ultima grossa negazione, dopo quella narrativa e quella della coincidenza vedere-parlare, è quella della recitazione. Riprendendo la storica lezione del neorealismo, infatti, la coppia Straub-Huillet impiega attori non professionisti, anche se, in questo caso, sarebbe più corretto parlare di non-attori, perché gli attori non professionisti del neorealismo, come Lamberto Maggiorani, un operaio nella vita, o Carlo Battisti, glottologo e linguista (rispettivamente protagonisti di Ladri di biciclette e Umberto D. di Vittorio De Sica), offrivano un’interpretazione dei propri ruoli alla stregua dei professionisti, impersonando le sofferenze dei propri personaggi e, quindi, dando un tono alle proprie battute. I non-attori di Sicilia!, invece, negano qualsiasi interpretazione, dando l’impressione non di recitare le proprie parti ma di leggerle: pause nei dialoghi messe in posti errati ed omesse laddove avrebbero dovuto esserci, quasi totale inespressività facciale, estrema rigidità nei movimenti e nelle azioni, quasi come se si trattasse di automi o di bambole. Si tratta, dunque, di una recitazione (o, meglio, non-recitazione) comunemente definibile come pessima o, ancor di più, inesistente ed insensata, la quale, però, assume il proprio senso (in)espressivo nell’ottica di quella poetica della negazione che abbiamo testé descritto.

Risulta quindi chiaro, o almeno si spera che lo sia, che il cinema proposto da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet sia estremamente elitario, destinato ad una ridottissima fetta del pubblico cinematografico oppure, addirittura, destinato a nessuno, quasi a voler negare anche lo spettatore. Tuttavia rimane un’esperienza unica che rientra alla perfezione nella definizione di “artistico” che si può ritrovare nel capitolo “Lo schermo è il cervello”, un’intervista rilasciata ai Cahiers du cinéma, del plurimenzionato “Cos’è l’atto di creazione?”, assurgendo quasi a manifesto di ciò che Deleuze riconduce alla dimensione dell’autore e dell’opera artistica, contrapposta al commerciale:

Un’arte produce invece necessariamente un che di inatteso, di non-riconosciuto, di non-riconoscibile. [ibid., p.33]