«Non siamo tutti nati liberi?». A Taiwan, anno 1962, c’è qualcuno che è più libero di altri. È libero chi sottostà alla legge marziale del Kuomintang, il Partito Nazionalista Cinese. Chi decide di dissentire non lo è. Ed è punibile anche con la pena capitale.
Questo periodo, passato alla storia con il nome di Terrore Bianco, è tristemente noto per l’uccisione o incarcerazione di numerosi dissidenti politici. Dal maggio 1949 al luglio 1987 furono imprigionati circa 140.000 taiwanesi, di cui 3.000-4.000 vennero giustiziati.
Il film Detention (Taiwan 2019) di John Hsu, presentato in Italia al Far East Film Festival 2020, vuole portare sul grande schermo gli incubi di quegli anni.
Gli studenti Ray-shin e Zhong-ting si ritrovano, senza ricordarsi come, di notte nella propria scuola. Quando scoprono che i collegamenti con il centro città sono saltati, i due rimangono bloccati nell’edificio, senza elettricità e alle prese con strani avvenimenti. La situazione precipita nel momento in cui il malvagio spirito tipico della mitologia cinese, il wangliang (魍魎 o 罔两), inizia a dare la caccia ai giovani studenti.
Come nel videogioco omonimo da cui prende ispirazione, Detention è un survival horror la cui dimensione orrorifica si sposa con la causa storico-politica. Il wangliang è infatti metafora di tutti coloro che, trattenuti dalla catena della cieca obbedienza e della paura, hanno denunciato i taiwanesi dissidenti o sono rimasti in silenzio di fronte alle ingiustizie perpetrate.
Pur con ottime intenzioni e buone qualità registiche, Detention non riesce ad essere convincente fino in fondo.
La prima parte tipicamente horror, peraltro ben riuscita, viene vanificata dalla seconda, dove sparisce del tutto la componente orrorifica. Il film si sposta su un piano più psicologico: qui, a fare da padrone, è il rimorso del tradimento di chi in quel periodo ha fatto la spia nei confronti dei propri famigliari e amici.
Per quanto l’intento sia lodevole, con un cambiamento stilistico così netto viene tradito il patto con lo spettatore e questo porta a perdere fiducia nel regista. La seconda parte di Detention non ha infatti la stessa carica emotiva della prima e non riesce a coinvolgere il pubblico nella storia.
Notevoli, comunque, la recitazione dei giovanissimi attori (Gingle Wang e Tseng Ching-hua su tutti) e la fotografia.
Detention dunque non è un film memorabile, ma di esso è importante ricordare il motivo per cui è stato girato. La stessa Ray-shin vorrebbe dimenticare quanto è accaduto, ma alla fine si rende conto che per lei l’unico riscatto possibile avverrà solo ricordando il male cui, pur in maniera involontaria, ha preso parte.
Non a caso, il wangliang riflette i volti delle persone. Il mostro, per quanto presentato come l’essere demoniaco tipico del folklore cinese, non è infatti un’entità soprannaturale malvagia per natura, né la macchietta di un preciso politico dell’epoca.
Il wangliang è invece costituito da chi è stato coinvolto – e usato – dal sistema e da chi, a distanza di anni, ancora oggi nega quanto accaduto.
Certo, sapere di aver vissuto durante uno degli eventi più bui della storia è terrificante. Ma c’è qualcosa di ancora più terribile: la consapevolezza che, quando cerchiamo di dimenticare e ci giriamo dall’altra parte di fronte a un’ingiustizia, diventiamo parte degli stessi ingranaggi da cui volevamo fuggire.
Perché tutti, nel nostro silenzio, siamo complici.