C’è stato un momento durante la visione della prima parte della sesta stagione che ho pensato “No basta. Ora stacco, non ce la faccio più”. Era una puntata classica, semplice, priva di eventi particolarmente significanti ma piacevole (per l’esattezza quella in cui Diane si trasferisce a Chicago con il suo nuovo compagno, il bisonte cameraman di nome Guy). Ho pensato “non ce la faccio” perché era una di quelle rare puntate messe qua e la, per dimostrare che non tutto fa così schifo. Ed è la più classica delle trappole alla BoJack Horseman: ogni volta che si intravede un barlume di speranza ecco che si ricasca in un fottuto otto volante di disperazione ed autodistruzione.
Ho pensato basta perché non potevo reggere l’ennesima batosta. Ma poi, per fortuna, sono andato avanti e BoJack mi ha sorpreso in positivo. Perché dopo una quinta stagione che stava diventando un po’ stantia nel girare su se stessa e nel trovare nuovi modi assurdi di rendere miserabile il suo protagonista, finalmente qualcosa cambia e tutti i personaggi hanno cominciato ad imboccare una lenta via della guarigione.
Per chi non lo sapesse (ed allora perché diamine state qui a perdere tempo) Hollywoo è un mondo inventato in cui esseri umani ed animali antropomorfi convivono beatamente e che ha in BoJack Horseman il suo indiscusso protagonista. Un cavallo narcisista, attore fallito con tendenze autodistruttive, un tossico ed alcolizzato che vive costantemente nel passato di quando era attore famoso e mattatore di una sit-com di successo.
BoJack Horsemen è una gigantesca terapia che scava nel più torbido dell’animo umano
Quella che era nata come una sperimentale sit-com di animazione fatta di gag, tormentoni, assurdità non sense alternate a momenti di profonda riflessione, con il tempo ha drizzato il tiro e non solo è diventata la serie che più di ogni altro negli ultimi anni ha rivoluzionato l’estetica della TV, ma soprattutto, è diventata una necessaria e dolorosa seduta terapica. Si, perché BoJack Horsemen è una gigantesca terapia che scava nel più torbido dell’animo umano (cavallo pardon) e che ogni volta fa affiorare qualcosa di peggio. Da ennesima satira animata è diventata una sorta di erede di Mad Men con Bojack che da provetto Don Draper è diventato il più grande antieroe della serialità americana.
BoJack sembrava il più classico degli stronzi, un essere irresponsabile, autodistruttivo, ricco e viziato con un passato turbolento e un presento all’insegna della bambagia e dei vizi. Una macchina genera gag che si sbronzava e faceva cose assurde. Persino anche quando con il passare delle puntate la serie è cominciata piano piano a cambiare, con i personaggi di contorno che da semplice corredo guadagnavano sempre più importanza ed approfondimento, quando il registro cominciava a diventare più introspettivo e meno comico ed assurdo, BoJack rimaneva sempre fedele a se stesso.
Allora quand’è che è cambiato tutto? Ognuno avrà la sua opinione: c’è chi dirà dalla morte di Herb, chi dalla fuga in New Mexico nel finale della seconda stagione e così via. Io personalmente pongo l’indice all’11esimo episodio della terza stagione That’s Too Much, Man!, ovvero la morte di Sarah Lynn per mano del cavallo antropomorfo, quella che da lì a poco diventerà la sua più grande Ossessione che rimbomberà come un eco per tutta la durata delle serie. Un nodo, sciolto con eccessiva facilità nell’immediato ma che ritornerà poi al pettine. Era inevitabile che la fine sarebbe passata da lì.
In questo episodio troviamo anche una delle immagini più iconiche di tutto BoJack Horseman: i profili di BoJack e Sarah Lynn al planetario con il richiamo senza risposta del cavallo alla sua sfortunata compagna di bravate “Sarah Lynn?! Sarah Lynn?! Sarah Lynn?!”, un’intonazione lancinante che risuonerà per tutto lo show. Un’istantanea così incisiva da entrare anche nella sigla dell’ultima stagione e soprattutto nella narrazione della stessa (cosa a dir poco geniale).
BoJack è uno spaventoso lavoro di scrittura, in cui tutto combacia alla perfezione e che fin dalla prima puntata si pone la domanda delle domande: “è possibile diventare una persona migliore?”
Commovente, ironico e corrosivo, è impossibile non affezionarcisi, perché ne siamo troppo coinvolti, perché c’è del BoJack in tutti noi: nelle nostre scelte sbagliate, nei nostri fallimenti e nel nostro rimandare. Le avventure del cavallo sono il manifesto dei nostri tempi e delle nostre ansie a volte curate con alcol e sterili relazioni, inutili quanto vuote.
BoJack è la nostra incostanza, è la palestra che comincerai domani, sono i buoni propositi dell’anno nuovo, è la litigata con le persone che ami che avresti potuto evitare.
BoJack è soprattutto un viaggio all’interno delle nostre ansie, da chi in qualche modo è stato spezzato, da chi si sente costantemente inadeguato, di chi è incapace di chiedere aiuto come conseguenza dell’incapacità di riconoscere di aver bisogno di aiuto.
Abbiamo bisogno di BoJack perché sentiamo il bisogno di sentirci migliori, perché diamine è impossibile essere un derelitto come lui. BoJack è la speranza che possiamo cambiare e che sia possibile diventare delle persone migliori. È la speranza nel futuro perché è la capacità di pensare che le cose possano andare bene a darci l’energia per affrontare le giornate, specialmente quelle brutte. E non si tratta di mera illusione, ma di una progettualità interiore che, se utilizzata bene, può anche renderci migliori. BoJack è la nostra forza.