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Alla ricerca di Hagen: White God (2014)

Dopo “Winter Sleep” e “Mommy”, c’era un altro titolo che agli Academy Awards 2015 non era presente, pur essendo una pellicola piena zeppa di significati che era riuscita a mescolare più generi diversi senza cadere (seppur rischiando) nella creazione di un “mappazzone” cinematografico.

 

E’ “White God” , preziosa perla prodotta da uno dei paesi che più ha subito e vissuto i (pochi) pregi e i (tanti) difetti della tanto discussa Unione Sovietica e del comunismo : l’Ungheria.
La storia vede al centro una giovane ragazzina, Lily, amante della musica e facente parte di un’orchestra in cui la giovane suona la tromba, ed il suo cane Hagen, protagonista indiscusso della storia.
Nell’Ungheria in cui i due vivono, c’è una tassa per i possessori di cani di razza, come Hagen.
Il padre di Lily, divorziato da sua madre e lavoratore in un mattatoio, non vuole assolutamente pagare questa tassa, giungendo ad un gesto estremo ed alquanto emozionante dopo pochi minuti.


L’abbandono per strada di Hagen, nonostante le forti resistenze di sua figlia.

Per il povero animale comincia così una dura Odissea fatta di fughe dagli accalappiacani, lotte clandestine, e maltrattamenti. Alla continua ricerca della sua padroncina, ostinata anche lei a ritrovare il suo povero cucciolone.

Il buon cucciolone Hagen

La trama del film del regista Kornél Mundruczó non è alquanto complessa.
Complesso semmai è lo sviluppo del film ed i significati allegorici che sono insiti nella pellicola.
Pellicola che potremmo dividere in due generi.
Uno più drammatico e realistico nella prima parte ed uno più thriller / horror nella seconda.
Ovvero quando la preda diventa cacciatore, quando Hagen, ed il gruppo di cani che insieme a lui si trovano al canile, non ne possono più di tutte le torture subite.
Scatenando una rivolta che tanto ci ricorda quella di Cesare in “L’alba del pianeta delle scimmie”.

Una scena incredibile

Rivolta.
Una parola che al paese magiaro non suona nuova.
Perchè quel popolo in rivolta lo è stato per anni contro un regime comunista chiuso e completo controllore delle vite altrui.
Sempre pronto a scovare, rilevare e punire, ogni cosa che andasse contro le regole imposte dal regime.
E per anni questo ha portato a comportamenti sottomessi verso la classe dirigente.
Come testimonia il comportamento di Lily verso suo padre, sempre pronta allo scontro ma succube delle volontà del genitore.
Dall’altro lato abbiamo il cane, vero protagonista del film e allegoria di quanto abbiamo appena detto.
L’animale (popolo) maltrattato e sfruttato da un ristretto numero di persone (regime) che comanda e decide delle vite altrui.
Verità riscontrabile ai tempi dell’Unione Sovietica.
Ma anche oggi, in quelli di un capitalismo che dovrebbe lasciar spazio a tutti ma che spesso si trasforma in una potente e meschina oligarchia.

Un legame indissolubile

Le scene strazianti e violente non mancano, anche se sono più accennate che mostrate.
Il regista per creare subito un forte legame tra spettatore e pellicola non a caso ha scelto proprio a detta di tutti è il “miglior amico dell’uomo”, rapporto di amicizia che qui viene messo in discussione, da entrambe le parti.
Buona la scelta di passare da un dramma realistico ad un genere più tinto di horror e thriller.
C’è anche una strizzata al “revenge movie” che male non fa in questo caso.

Anche se il rischio di un grande calderone in cui sono stati messi troppi ingredienti c’è.


E un po’ si vede, in alcuni aspetti che nel film non vengono molto approfonditi (vedi il rapporto tra Lily e suo padre, che non rimane statico ma muta troppo superficialmente e velocemente).
Un’emozionante lungometraggio sull’amore tra un cane e la sua giovane padroncina viene messo in discussione.
Così come quello degli uomini per i cani e viceversa.

Una critica all’Ungheria di un tempo e a quella odierna, la rivolta delle masse, che portò alla sanguinosa rivoluzione del ’56 e che anche ora potrebbe spodestare l’oligarchia economica al potere, l’emarginazione, sono i temi cardine di questo film.
Un film che viaggia su due generi principali, su binari paralleli.
Testimoniati anche dagli sguardi e dolci e affettuosi ed insieme di odio e rabbia di Hagen.
Il tutto condito da una musica solenne ed austera quanto emozionante come la “Rapsodia Ungherese n° 2”.
La scena finale è da brividi.
Ed è solo un altro motivo per cui la pellicola di Mundruczó ha ricevuto il premio “Un certain regard” al Festival di Cannes 2014.
Un film che prende, che lascia il segno, che fa emozionare, che spaventa e fa riflettere. 

PS : Per gli animalisti convinti : i cani che vedete nel film erano tutti in un canile.
E pare, siano stati, girato il film, tutti, adottati dall’uomo.
 Quello che loro da sempre vedono, anche se a volte così non si dimostra, il loro “Dio Bianco”.

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Capo Redattore e Co-fondatore

Grande amante del cinema, e questo è scontato dirlo se sono qua :­) Appassionato da sempre del genere horror, di nicchia e non, e di film di vario genere con poca distribuzione, che molto spesso al contrario dei grandi blockbuster meriterebbero molto più spazio e considerazione; tutto ciò che proviene dalle multisale, nelle mie recensioni scordatevelo pure. Ma se amate quelle pellicole, italiane e non, che ogni anno riempono i festival di Berlino, Cannes, Venezia, Toronto, e dei festival minori, allora siete capitati nel posto giusto.

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