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Lost in Translation – Travolti dagli eventi

Sono passati 16 anni circa e molte persone ancora oggi considerano Lost in Translation come uno dei migliori film degli anni ’00. Ma a domanda diretta, sono in pochi a sapere il perchè. Come ha detto proprio Scarlett Johansson: “ È stato il punto di svolta. Quando ho firmato ho pensato: nessuno lo andrà a vedere. Non che non credessi nel progetto, ma la sceneggiatura era così breve, solo 76 pagine. Così nessuno sapeva cosa sarebbe saltato fuori. Molto di quel film è atmosfera, non succede niente. Sono le luci, la musica, le inquadrature…”

L’incipit è già citazione, il fondoschiena velato di Charlotte che rimanda a “Jutta” opera di John Kacere, espressionista astratto americano venuto a mancare nel 1999.

Poi è tutto un continuo senso di inadeguatezza (Charlotte: Ma ho dei limiti, Bob: Non è un male!) e necessità esistenziale di fuga (Sai mantenere un segreto? Sto organizzando un’evasione da un carcere. Mi serve, diciamo, un complice. Prima dobbiamo andarcene da questo bar, poi dall’albergo, dalla città e infine dal paese. Ci stai o non ci stai?).

I protagonisti sono tre. C’è Charlotte (Scarlett Johansson) che piange per un amore di cui non è sicura. C’è Bob (Bill Murray) che ruota su se stesso come un criceto avvertendo l’incombente fine della sua carriera e di un vecchio amore color borgogna (ma vedi tu). Poi c’è Tokyo confusionaria e a tratti prima di senso logico. Il posto migliore dove anestetizzare le proprie crisi esistenziali.

Bob e Charlotte si trovano ospiti nello stesso Hotel. Diventano amici. C’è troppa differenza di età, eppure, tra di loro, si avverte una latente tensione sessuale.

Intanto con in testa una meravigliosa parrucca rosa shocking, Charlotte cerca solo una spalla su cui appoggiarsi, citazione di un Wong Kar-wai di tre anni prima, forse nel più importante film di questo secolo, “In the mood for love”.

Suonano i Death in Vegas, gli AIR, The Jesus and Mary Chain, ma soprattutto Kevin Shields chitarrista dei My Bloody Valentine. Tanto shoegaze, atmosfere dilatate e romanticismo non decantato, l’amore non urlato per qualcuno di speciale incontrato nel momento sbagliato e/o nel posto più improbabile.

E anche se Tokyo luminosa e colorata, non si spegne mai, si può essere soli, dolorosamente soli. In questi momenti non valgono le certezze e come dice Bob: “Più conosci te stesso e sai quello che vuoi, meno ti lasci travolgere dagli eventi”. A dirlo in realtà non è Bob ma Sofia Coppola, figlia d’arte con tutto ciò che comporta, ma soprattutto figlia di una generazione che le ha lasciato addosso solo quella X esistenziale nichilista e scettica che non vuole certezze, perché come diceva Lennon: “La vita è ciò che ti succede mentre stai facendo altri progetti”.

Poi c’è quel finale che non dimenticheremo mai. Una frase sussurrata, come un amore che non esplode mai. Un segreto bisbigliato all’orecchio e che la Coppola non vuole rivelare allo spettatore, un qualcosa che non ci appartiene. Ma allora perché ci fa così male? E improvvisamente ritorna il mood in love di Wong Kar-wai e le parole affidate alle rovine cambogiane di Angkor Vat.

Un piano d’ascolto sui generis, non vediamo l’azione/parole ma rimaniamo partecipi e coinvolti dall’emozione sul volto dei protagonisti.

Magari sei a Tokyo, magari t’innamori, magari no.