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Berlinale 2020: The Woman who ran

Il cinema sudcoreano è la certezza di quest’anno.
A questa prima Berlinale, noi di Jamovie non potevamo perderci l’ultima opera del regista Hong Sang-Soo (La collina della libertà, 2014; Venice 70: Future Reloaded, 2013; Right Now, Wrong Then, 2015), di nuovo ospite del festival berlinese con un film piccolo e prezioso, una variazione sui suoi temi esistenziali ricorrenti: The Woman Who Ran.

Nel film Kim Min-hee (già vista nel thriller erotico-psicologico The Handmaiden di Park Chan-Wook del 2016) è Gam-hee, una trentenne che per la prima volta dopo cinque anni decide di partire da sola approfittando di un viaggio d’affari del marito e far visita a tre vecchie amiche nella periferia di Seoul.
La prima è la neo-divorziata Young-soon (Sei Young-hwa) per un grill party  a cui porta carne e tanto buon alcol; la seconda è Su-young (Song Seon-mi), un’insegnante di pilates da poco trasferitasi in un nuovo appartamento, con cui beve solo un bicchiere di vino bianco; infine, l’incontro più enigmatico: quello con Woo-jin (Kim Sae-byuk), proprietaria di un cinema con la quale sembrano esserci ancora questioni in sospeso dal passato, con la quale si limita a un caffè.

Il regista, una presenza fissa alla Berlinale fin dagli anni Novanta, è famoso per instillare nelle bocche dei suoi attori del soju, una bevanda alcolica di riso tipica della Corea, per rilassare e sciogliere la lingua poco prima di girare scene in cui la comunicazione è fondamentale.
Anche in The Woman Who Ran si beve dell’alcol, ma soprattutto c’è tanto, tanto dialogo.
Nulla di esaltante apparentemente, solo delle vecchie amicizie che si aggiornano; eppure, attraverso i dialoghi e le stanze, risuonano le vite dei personaggi.
Si tratta di un principio costante dei film di Hong, declinato senza sceneggiature finite.

Il regista guida gli attori in lunghe conversazioni che osserva dall’esterno con lunghe riprese statiche.
Momenti esilaranti si alternano a banalità e riflessioni esistenziali in flusso spontaneo e continuo.
Il montaggio essenziale, né troppo né troppo poco, conferisce alla messa in scena un’aura quasi teatrale, spezzata ogni tanto da una panoramica e uno zoom che accentuano ciò che è appena stato detto (o che è rimasto sospeso, non detto).

Ciò è più visibile nell’ultimo incontro, più carico di dolori irrisolti: si accenna a un dramma, a una separazione, parole di scusa e dispiacere vengono pronunciate, le donne si prendono per mano.
Hong rimane sulla superficie, lasciando allo spettatore il compito e il piacere di andare in fondo ai mondi interiori, dietro ogni frase, far affiorare le decisioni e le conseguenze con cui il personaggio sta convivendo, ricostruendo il quadro d’insieme.
Al centro della cornice rimangono le protagoniste: donne che parlano di uomini, i quali sono declassati a puro argomento di conversazione tra cinismo, rimpianto e umorismo.

Una delle scene più belle rimane il litigio tra Young-soon e il suo vicino di casa, venuto a lamentarsi perché lei e la sua coinquilina danno da mangiare a un gatto randagio.
Il risultato è una scena che è allo stesso tempo scherzo assurdo e sublime cinematografia: un dialogo quasi filosofico sul rapporto tra uomo e animale, in cui il gatto stesso ha l’ultima parola.

The Woman Who Ran non è il miglior film di questa Berlinale – il regista, in fondo, ci presenta ancora il suo leitmotiv – tuttavia rimane un delicato spaccato di vita quotidiana che solo la poesia del cinema coreano poteva rappresentare con tanto realismo e raffinatezza.
Un film minimalista concentrato sulla scrittura, quell’aspetto della narrazione cinematografica ultimamente troppo ignorato in confronto alle grandi maestrie tecnico-estetiche (tipo long takes lunghi tutto un film, vero Sam Mendes?).
Una scrittura tanto forte quanto sottile, in grado di farci esperire il piacere di una bella chiacchierata.
Tre micro-storie che contengono degli universi, in grado di cambiare la nostra percezione della realtà.

Articolo a cura di Margherita Montali