Sin dal suo lontano esordio nel 1998 col lo scorsesiano Kurz und schmerzlos, il regista tedesco ma di origine turca Fatih Akın, ha ambientato le sue pellicole nell’austera e piovosa Amburgo. Una città, come altre in Europa, simbolo della stridente integrazione tra occidente ed oriente. Seguiranno nella carriera del regista altre pellicole come La Sposa Turca e Soul Kitchen. Stessi luoghi e stessi temi. Rivisitati e rimescolati. Fino al 2017 quando Akin scrive e dirige Aus dem Nichts, titolo poi modificato sia per il mercato estero che per quello italiano. Un peccato perchè “Dal nulla” sarebbe stato un più aderente riassunto dei fatti.
Proprio dai fatti che parte la storia del regista turco. Un attentato o forse dovremmo parlare di diversi attentati che in Germania hanno chiamato Döner-Morde i Delitti del kebab. Una serie di omicidi con armi da fuoco eseguiti tra il 2000 e il 2006 contro immigrati turchi da un gruppo terroristico non organizzato di ispirazione neonazista denominato Nationalsozialistischer Untergrund (NSU).
Akin parte dai fatti realmente accaduti. Ci costruisce una storia di fiction, una storia di vendetta divisa in tre atti: la famiglia, la giustizia e il mare. Ogni atto viene sottolineato con un cartello e un video di Katja, Rocco e Nuri fatto con lo smartphone che li ritrae in un tenero quadretto familiare. Nel primo atto, Katja (una straordinaria Diane Kruger) sposa Nuri, un ex spacciatore di origine turca, redento e che ora dirige un ufficio nel quartiere turco di Amburgo. I due hanno anche un figlioletto Rocco. Un giorno Katja lascia entrambi nello studio di lui. Sarà l’ultima volta che li vedrà.
Andare avanti vorrebbe dire spoilerare eccessivamente una storia che si fonda proprio sul susseguirsi incalzante di eventi. Una trama ben congegnata per incollare lo spettatore allo schermo.
Non c’è da meravigliarsi, in fondo sappiamo bene da tempo due cose: Fatih Akin non è un grande regista e da ormai un decennio insegue bramoso il sogno di diventare una firma hollywodiana. Anche questo film purtroppo lamenta in maniera palese, questo goffo tentativo dell’autore troppo distratto da plongè, effetti vertigo e rallenti. Per fortuna il film grazie ad una solida sceneggiatura e ad un’interpretazione stupefacente della Kruger (Prix d’interprétation féminine al Festival di Cannes), funziona e intrattiene dall’inizio alla fine.
Ed è proprio nell’ultimo atto che la pellicola di Akin entra in un cortocircuito narrativo. Portare a casa il finale nella misura e nella maniera in cui viene concepito l’intero film. Il regista si fa esplodere in un pericoloso e scivolosissimo better ending reazionario, bombarolo e privo di alcuna fiducia nel sistema giudiziario. Un ribaltamento della realtà, dei valori morali, di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. L’autore stesso sottolinea il tutto (forse con un filo di enfasi) nell’ultima inquadratura con il mare capovolto.
Redenzione, catarsi, un hana bi kitaniano che però non può distogliere lo spettatore da un messaggio chiaro e preoccupante. Soprattutto da chi come Akin rappresenta una bisettrice tra due culture che cercano senza riuscirci di trovare un punto in comune da dove ricostruire una nuova e fraterna Europa.