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Hector: la vita di un senzatetto

Hector McAdam (Peter Mullan) è uno dei tanti senzatetto che si aggirano per le strade di Glasgow. Gente sfortunata che la vita ha messo in un angolo. Spesso uccisi dall’indifferenza o come nel caso del suo più caro amico Dougie, dal freddo. In vista del Natale, come fosse una migrazione annuale, si trova a fare l’autostop sulla M6 per raggiungere una comunità di volontariato a Londra.

Questo però è un anno speciale però, poiché l’uomo ha deciso dopo 15 anni di silenzio di andare a trovare la sorella. Non riuscendo a contattarla Hector le lascerà un messaggio tramite il cognato. Giusto lo stretto necessario per far sapere che la sua vita errabonda va avanti, lottando per un pasto caldo e un paio di scarpe nuove. Ma Hector non sa che quella apparentemente innocua ambasciata al marito della sua sorellina, potrebbe innescare un’ importante serie di cambiamenti nella sua vita.

Per tutta la durata di questa opera prima firmata da Jake Gavin, aleggia lo spirito di Ken Loach.

L’84enne autore britannico ha formato una folta schiera di autori e senza dubbio il fine ultimo di questo esordio cinematografico attinge molto all’approccio umanista dell’anziano regista di Nuneaton. E allora per entrare meglio nella pellicola di Gavin tocca scomodare la definizione stessa della parola umanesimo, ossia quella categoria di filosofie etiche che affermano la dignità e il valore di tutte le persone, basata sull’abilità di determinare giusto e sbagliato appellandosi a qualità umane universali, particolarmente alla razionalità. Niente di più semplice e niente di (apparentemente) più scontato. Eppure non è sempre possibile. Di mezzo, come nel caso di Hector, ci sono traumi e drammi, anzi tragedie del passato che hanno deviato il normale corso della vita dell’uomo, costretto a cercare la felicità in una minestra o un paio di calzini asciutti. Una decisione quella di Hector, una scelta di vita quasi francescana a voler espirare presunte colpe del passato e quelle voci che sul finale del film (occhio allo spoiler) dirà di sentire nelle orecchie quando finalmente incontrerà la sorella.

Durante questo lungo viaggio per la celebre Vigilia di Natale londinese, il regista ci mostra una Gran Bretagna diversa da quella di Loach ma come ne “ferrei” tempi della Thatcher, unita da un innato spirito di solidarietà umano. L’ottimismo è dietro l’angolo o ad un incrocio.

Gavin non manca di sottolineare la precarietà dell’esistenza di un homeless in diverse maniere. La scena finale senza dubbio, che ricorda quella con la quale Zemeckis chiuse Cast Away. C’è poi anche un elemento narrativo apparentemente abbandonato al caso, ossia la visita medica che sembra essere un inquietante indizio narrativo per poi sgonfiarsi (apparentemente). Come a dire che del futuro non v’è certezza per nessuno, figuriamoci per chi come Hector vive di espedienti.

Ovviamente non tutto è perfetto. La pellicola barcolla per la più che comprensibile scarsa esperienza dell’autore, sia in fase di scrittura (alcuni personaggi sembra buttali li per caso) che in fase di regia (a volte manca un po’ di ritmica). Ma due cose sono e rimangono fondamentali in Hector, l’umanità che traspira da questo malconcio on the road e l’interpretazione degli attori. E allora ben venga che il film sia stato distribuito esclusivamente da Netflix ma senza il doppiaggio, perchè in tal modo il pubblico italiano sarà costretto ad apprezzare i dialoghi e la recitazione di un mostro sacro come Peter Mullan, colonna portante del film di Gavin e attore feticcio di Ken Loach, col quale aveva lavorato per la prima volta nel lontano 1991 in Riff Raff.

I tempi cambiano, ma lo spirito rimane lo stesso.