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Intervista al regista Stefano Calvagna!

Buongiorno Stefano! Con quali film e in che periodo della tua vita nasce la passione per il cinema?

La mia passione per il cinema nasce a fine anni ’70, quando avevo meno di 10 anni, perché il mio amico Marco Corridori  (figlio di Giovanni Corridori) abitava nel mio stesso palazzo. Lui mi faceva leggere i copioni dei film che girava suo padre, che si occupava e si occupa tutt’ora di effetti speciali. Da lì mi iniziai ad incuriosire  e cominciai a girare dei cortometraggi ispirati ai film di Tomas Milian con la piccola “Video 8” di mio nonno. Il problema, a quel tempo e con quei mezzi, erano il montaggio e l’audio. Trovai un fotografo di zona che riuscì ad aiutarmi, almeno, a visionare il materiale.

Una mattina Giovanni Corridori suonò al citofono di casa di mia madre e mi portò con sé su un set a Cinecittà. Andai con lui e quel set era quello di “C’era una volta in America”. Quel giorno vidi qualcosa di unico e mi trovai di fronte un  attore che non conoscevo ma che aveva qualcosa di “superiore”. Mi diede un pizzicotto sulla guancia, era James Woods! Da quel momento ho capito quello che volevo fare: mi è entrato dentro uno sciamano come a Jim Morrison. Quando sono tornato a casa volevo solo fare cinema.

La tua prima regia, correggimi se sbaglio, è “Senza paura”, nell’ormai lontano 2000. Comè andato il tuo esordio dietro la macchina da presa?

Era il 1999. In un periodo in cui nel cinema italiano si vedevano solo commedie e sentimenti, io ho avuto il coraggio di girare un film pulp. Proprio grazie a quest’opera, il critico Gian Luigi Rondi (che si allargò davvero tantissimo!) mi definì un “Quentin tarantino italiano”. Era un film ispirato alla “Banda del taglierino” e solo anni dopo anche gli altri hanno capito il potenziale di affrontare questo genere. Sono arrivati così “Romanzi Criminale” e  “Gomorra”, i quali fanno riferimento ad opere letterarie  basate sulle realtà di cronaca nera create da grandi bande e associazioni criminali.

Sempre nello stesso anno dirigi un’altra pellicola, che poi diventò un piccolo cult, “Arresti domiciliari”…

Esatto. Ho girato “Arresti domiciliari” con la volontà di svolgerlo interamente dentro un appartamento e, soprattutto, pensando a come si potesse vivere costretti in casa per via degli arresti domiciliari per un errore giudiziario. E’ stata una commedia purtroppo profetica per me. Ho diretto tanti grandi attori qui, come Riccardo Garrone, Karin Proia per la prima volta sullo schermo come protagonista, Francesco Benigno, Tony Sperandeo, Angelo Bernabucci.

5 anni dopo, nel 2005, è il momento di “L’uomo spezzato”, un film drammatico che vede al centro della storia un uomo accusato ingiustamente di molestie sessuali da una ragazzina…

Sì, “L’uomo spezzato” è il primo film di denuncia della mia carriera. Una denuncia, in questo caso, al terribile sistema della stampa. La vita del protagonista, infatti, viene rovinata principalmente dai giornalisti, i quali non esitano un momento nel pubblicare la notizia delle molestie delle quali viene (ingiustamente) accusato da una studentessa quindicenne, gettando un uomo innocente in un tritacarne mediatico. Quando l’accusa viene smentita, però, e quando l’uomo viene assolto dalla legge per non aver commesso il fatto.

E quegli stessi giornalisti non hanno mosso un dito per ripulirne l’opinione pubblica. Questo fatto, purtroppo, accade spesso e la stampa, che dovrebbe essere la cassa di risonanza della verità, informatrice e “voce del popolo”, si fa spesso carnefice di vite umane e carriere. E’ un triste dato di fatto che le accuse fanno notizia, mentre troppo raramente le assoluzioni vedono la luce che dovrebbero. Purtroppo, oggi, la situazione è peggiorata a causa di molti pseudo giornalisti e commentatori che hanno la libertà di diffondere qualunque tipo di notizia adattata al proprio pensiero grazie a tutti i mezzi web che esistono. Oggi tutti hanno modo di pubblicare e a volte di far girare notizie completamente sbagliate.

Nel 2007 dirigi “E guardo il mondo da un oblò”, una commedia. Ce ne puoi parlare?

“E guardo il mondo da un oblò” è un’opera ispirata ad un articolo di giornale. Lessi che molta gente si incontra nelle lavanderie a gettoni e lì sono nati matrimoni e grandi amicizie. Iniziai così a frequentare una lavanderia vicino a casa mia e capii alcune dinamiche. Il film è ispirato a personaggi solitari che ho visto entrare in quella lavanderia. È infatti un’opera ispirata proprio alla solitudine. E’ una commedia girata in un’unica location, appunto una lavanderia pubblica, dove i personaggi si incontrano e condividono le proprie vite. Per girarla, unii alcuni giovanissimi studenti della scuola di recitazione a grandi attori, creando un’alchimia perfetta che ho utilizzato di nuovo dei miei film successivi.

“Il lupo”, ispirato alle vicende criminali di Luciano Liboni, ebbe più successo all’estero che in Italia, ma cominciò a far conoscere il tuo nome tra i cinefili. Il film però è famoso anche per le svariate polemiche che scoppiarono. Hai voglia di parlarcene un attimo?

“Il lupo” ha avuto un forte riscontro all’estero, ma anche in Italia. Ho sentito il desiderio di fare questo film dopo aver incontrato per caso Luciano Liboni mentre giravo “L’uomo spezzato”. Lui allora era latitante e si avvicinò al set, bloccato nel suo cammino dai miei assistenti alla regia. Nessuno lo aveva riconosciuto, perché eravamo vicino alla stazione termini ed era molto buio. I miei assistenti si scusarono con lui, il quale si mise ad aspettare tranquillamente. Quando diedi lo stop lui mi si avvicinò e mi chiese dove poteva mettersi per guardarci senza dare fastidio.

Io gli indicai un posto dove sedersi, senza riconoscerlo pur riconoscendo in lui un volto familiare (dovuto al fatto che girava molto il suo identikit e le sue foto, tuttavia si era rasato tutti i capelli ed era ingrassato). A fine scena si sentì uno sparo e delle sirene, e lì capii chi era. Scappò mentre la polizia lo cercava, e allora anche la mia sarta corse da me per dirmi chi era. Allora iniziai ad interessarmi alla sua storia, andai nel suo paese natale, Montefalco, a parlare con il suo migliore amico. Tutto ciò che c’è nel film è veritiero, fatta esclusione per parte del finale che è romanzata nella parte in cui il carabiniere interpretato da Montesano non vuole catturarlo vivo, un po’ come sta succedendo nei nostri giorni con Igor.

Anche se le due storie sono totalmente differenti. Il serbo è un paramilitare molto preparato, mentre Liboni era un lupo solitario nato in un piccolo paese e senza addestramenti particolari. Il film è stato preso come un attacco alle Istituzioni ma non voleva essere così. E’ un’opera dal grande impatto emotivo dal punto di vista drammaturgico. Purtroppo il fraintendimento ha fatto sì che a livello distributivo venisse penalizzato. Mi hanno anche fatto cancellare una proiezione nel carcere di Regina Coeli. Se avessi fatto questo film in America non sarebbe andata così.

“Il peso dell’aria”, uno dei tuoi film più belli ma forse meno conosciuti, che parla di un tema molto attuale e scottante…

Sì, “Il peso dell’aria” tratta un argomento che, purtroppo, non smette mai di essere attuale. E lo sarà almeno finchè non finirà la brutta crisi economica che mette in ginocchio tanti uomini e tante famiglie, da decenni. E’ un’opera ispirata a storie reali che mi hanno raccontato delle mie conoscenze e che mi hanno profondamente colpito.

L’usura è una piaga sociale di difficile debellamento. Anche qui, il film, che giudico una delle mie migliori opere, è stato penalizzato da alcuni pseudo-critici online che vogliono sminuire me a causa di un pregiudizio che c’è nei miei confronti. Anche a causa del mio pensiero politico che non si accosta a quello preponderante nel mondo del cinema. Le mie opere non vengono mai giudicate con obiettività, ma piuttosto con attacchi ingiustificati atti a penalizzare la mia persona.

Nel 2009 ecco in arrivo “L’ultimo ultras”, pellicola al quale sei particolarmente affezionato, se non erro…

“L’ultimo ultras” è un film che ho girato in condizioni molto particolari, per motivi personali. Tuttavia, è stata una bellissima esperienza. Fa riferimento al calcio, altra mia grande passione (ma che si sviluppa in realtà su una storia di latitanza). Con riprese effettuate in luoghi bellissimi sulle sponde del lago di Como. Quest’opera ha avuto molto successo, specialmente nel mondo degli ultras che ne hanno acquistate parecchie copie, ma anche all’estero. Pensa che ho scoperto, non molto tempo fa, che in Asia vendono  delle magliette con la locandina del film. Io non lo sapevo, è stato un mio amico a segnalarmelo. In realtà non avrebbero neanche il mio permesso per farlo, ma questa cosa mi ha divertito molto. Mi ha fatto capire che, a distanza di anni, questo film ha ancora una forte risonanza, persino dall’altra parte del mondo!

“Multiplex”, il tuo buon esordio nel genere thriller/horror, nonostante il budget risicato. Com’è andata?

Mi piace spaziare nei generi e ho voluto provare anche il thriller.  Nonostante il budget molto basso, sono molto soddisfatto di quel lavoro. Mi piace il taglio di regia, il pathos che si è creato, la colonna sonora, inoltre tutti i giovani attori protagonisti sono stati bravissimi nei loro ruoli.

Sempre nel 2013 giri “Rabbia in pugno”…

“Rabbia in pugno” è il primo film che ho girato agli arresti domiciliari, anni prima della sua uscita al cinema. Io non potevo uscire dalla palestra nella quale avevo il mio ufficio quindi abbiamo ricreato tutto lì dentro, dalla produzione al set. E’ un action movie che per me ha rappresentato una rinascita dal punto di vista professionale e umano.

“Non escludo il ritorno”: un’altra pellicola, possiamo immaginare, sentitissima. E che riguarda il tuo grande amico Franco Califano…

Avevo saputo che volevano girare una fiction Rai su Franco Califano. Ho velocemente sviluppato la mia idea di fare un film su di lui. Per me è stato un maestro di vita oltre che una persona a me molto cara. Ho avuto modo di conoscerlo, di stare a casa sua e di vivere alcuni momenti della sua vita. Mi sembrava opportuno e giusto dargli un doveroso omaggio, senza farlo fare a chi magari avrebbe parlato solo di quelle cose su cui tutti si sono sempre superficialmente soffermati: droga, galera e donne.

“Si vis pacem, para bellum”, un ritorno al cinema di genere. Ci racconti come nasce l’idea per questa pellicola?

Mi è piaciuto tantissimo girare “Si Vis Pacem Para Bellum”, sia in veste di regista che di attore protagonista, perché mi ha riportato a quello che è stato l’inizio della mia carriera. Una storia interessante, un samurai dei nostri giorni, credo che se questo film fosse stato fatto da altri si sarebbe gridato al capolavoro. Invece l’ho fatto io, distribuito in poche sale.

Regista, produttore, sceneggiatore, ma anche attore, non solo dei tuoi film, ma anche di progetti altrui. Ci puoi parlare della tua parte in “In nomine Satan” di Emanuele Cerman?

Quel film era nato inizialmente come “I ragazzi del male”, una sceneggiatura da me scritta per un lungometraggio che dovevo dirigere io. Però, a seguito di un momento particolare della mia vita, ho dato la regia ad Emanuele Cerman. Ne sono stato contento, perché è una persona che stimo e con la quale condivido molte cose, oltre ad essere un amico. Lui ha personalizzato il film secondo la sua visione e io ho interpretato il ruolo mai fatto prima di un magistrato. E’ stato per me un personaggio nuovo e particolare. Sono molto contento di questa pellicola, anche perché ha girato in parecchi festival internazionali.

Da sempre hai girato film low budget e sei un vero decano del cinema indipendente italiano. Come vedi il cinema indie italiano di oggi rispetto a 15-20 anni fa?

Il cinema italiano è molto “markettaro”. Purtroppo non si fanno i film per l’esigenza di farli ma sempre ascoltando prima quanto c’è a livello di budget. Difficilmente si crea un film sulla base di una sceneggiatura. La maggior parte è prodotta comodamente, indipendentemente dal valore artistico, sui finanziamenti ministeriali e i  grandi budget delle grosse major. Questo non  aiuta a tirare fuori delle buone idee, anche se fortunatamente non è così per tutti.

Quali sono i tuoi film italiani preferiti degli ultimi anni?

Mi sono piaciuti molto “L’uomo in più” di Sorrentino e “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti.

Una grossa parte dei lettori di Jamovie sono amanti dei film thriller, horror e di fantascienza. Perciò ti domando: quali sono i tuoi horror preferiti in assoluto? E’ un genere che apprezzi l’horror?

L’horror mi piace molto. Non mi sono mai permesso di farlo perché secondo me ci vuole una preparazione specifica. E’ una scuola a parte, e bisogna anche rispettare certi budget per farlo bene e in modo credibile. Ho apprezzato tanti horror, anche del passato. Mi piace George Romero, e non posso non citare film come “Profondo Rosso” o “La casa”.

Ci puoi parlare dei progetti ai quali stai lavorando in questo periodo?

Sto lavorando ad un progetto sui tifosi del Millwall, “la tifoseria più incazzata di Inghilterra”. Voglio raccontare chi sono questi ultimi romantici.