A cosa pensiamo, solitamente, quando pensiamo all’animazione orientale? Il primo nome che ci viene in mente è quello di Miyazaki Hayao, insieme a quello di Takahata Isao e, in generale, lo Studio Ghibli. Sopraggiungono poi le immagini di Perfect Blue di Kon Satoshi, Ghost in the Shell di Oshii Mamoru e Akira di Otomo Katsuhiro. L’animazione giapponese, dunque, ha il monopolio dell’immaginario del pubblico. Tuttavia, anche la Corea del Sud ha diverse opere e registi d’animazione degni di nota. Uno su tutti, Yeon Sang-ho, giunto all’attenzione del pubblico internazionale grazie al suo meraviglioso Train to Busan, lo zombie movie in live action del 2016 che ha stregato una larghissima fetta degli amanti dell’horror. Non tutti gli estimatori di questo film, però, sono a conoscenza del fatto che Yeon abbia realizzato diversi film d’animazione estremamente validi: prima della sua esplosione con il film del 2016, infatti, ha realizzato tre lungometraggi animati degni d’attenzione e che oggi presenteremo brevemente. Il suo stile è assai differente da quello che il pubblico occidentale intende per “animazione orientale”, sia da un punto di vista visivo che tematico. I suoi disegni, infatti, sono assai più semplici rispetto a quelli dello Studio Ghibli o quelli di Kon Satoshi, per esempio, son per lo più colorati per campitura, senza molte sfumature, ed i movimenti dei personaggi son simili a quelli di marionette. Yeon, nei suoi tre film, ricerca sì un certo realismo ma non nell’aspetto puramente grafico. Yeon fa film per adulti, film maturi, inserendosi quindi in quella corrente dell’animazione che vuole staccarsi dall’idea che i “cartoni animati” siano per bambini. I tre film, pur essendo molto diversi tra loro, hanno un filo che li collega, una visione piuttosto cupa dei rapporti umani, ritratti come un tentativo di sopraffazione del prossimo e come un continuo inganno che perpetriamo gli uni gli altri.
I tre film di cui stiamo parlando sono The King of Pigs (Dwae-ji-ui Wang, 2011), The Fake (Saibi, 2013) e Seoul Station (Seoulyeok, 2016), il più celebre dei tre, prequel animato di Train to Busan. Tutti e tre affrontano temi differenti e generi differenti, trattati sempre con crudezza e crudeltà tali da renderli difficilmente dimenticabili: The King of Pigs analizza, attraverso il genere drammatico, il fenomeno del bullismo giovanile e scolastico dal punto di vista delle vittime, mostrandole, però, non come semplici burattini nelle mani dei bulli ma, in quanto esseri umani, comunque crudeli e malvagi; The Fake, invece, affronta con gli strumenti del thriller tipico sudcoreano la religione, descrivendola come uno strumento di sottomissione e sfruttamento dei più deboli; Seoul Station, infine, sfrutta il genere horror/zombie per ritrarre i rapporti di fiducia tra gli esseri umani, oltre a sfruttare la crisi dell’invasione di infetti (non si tratta, infatti, di zombie nell’accezione originaria del termine) come critica alla classe dirigente, violenta e disinteressata nei confronti del popolo.
Parlando del bellissimo Cure di Kurosawa Kiyoshi (qui potete recuperare la recensione), citammo la celebre locuzione latina “homo hominis lupus”, ovvero l’uomo è un lupo per l’uomo, un pericolo. Siamo animali feroci, se da un lato abbiamo una pulsione alla conservazione, dettata dall’impulso sessuale, dall’altro tendiamo all’autodistruzione, sopraffacendo il prossimo, imponendo la nostra violenza sugli altri. Così abbiamo fenomeni come il bullismo (The King of Pigs), la religione come strumento truffaldino (The Fake) e l’inganno relazionale e l’animalesca ferocia che scatta quando perdiamo il freno inibitorio della nostra umanità (Seoul Station). La pulsione per la morte è ciò che più affascina Yeon Sang-ho, che prova a sviscerarne il funzionamento in questi tre film che, pur non essendo ufficialmente appartenenti ad una trilogia, proprio per questa attenta analisi potrebbero essere accorpate in un trittico.
In The King of Pigs, nel quale i “maiali” sono le persone destinate a sottostare alla tirannia di chi detiene il potere, sia a livello adolescenziale (rapporto bullo-bullizzato) che a livello adulto e sociale. Nel film assistiamo a due uomini cresciuti assieme che, dopo anni di distanza, si ritrovano e ricordano le proprie disavventure scolastiche, nel periodo durante il quale erano tormentati da una gang di bulli. Solo con l’arrivo nella loro classe di un nuovo compagno, bizzarro e misterioso, i due ragazzi son riusciti a trovare un alleato contro questa piccola organizzazione criminale. Il nuovo arrivato sembra completamente apatico, un androide che agisce senza alcun freno e, così, arriva a picchiare selvaggiamente i bulli, divenendo a sua volta bullo. Agghiacciante è l’idea che costui ha instillato nei due poveri ragazzi costantemente bullizzati: per combattere i cattivi bisogna diventare ancor più cattivi di loro, una sorta di “fight fire with fire”. Questa idea, che sembra una semplice ingenuità adolescenziale, colpisce forte non solo i due protagonisti ma anche lo spettatore, perché è un’idea così primitiva ed atavica che sfiora il punto più profondo ed oscuro della mente dello spettatore, quel punto così antico del nostro pensiero e così spaventoso che sentiamo sempre il bisogno di nasconderlo sotto strati su strati su strati di buonismo e moralismo, con il quale lisciamo il nostro stesso pelo di uomini culturalmente avanzati. Siamo spaventati da quest’idea perché preclude quello spiraglio di bontà che ipocritamente sosteniamo di avere. Il male come una piaga psicologica, così viene descritto in The King of Pigs, una piaga che si diffonde nella mente dei deboli e che, qualora facesse effetto ed infettasse la loro innocenza, li trasforma in mostri violenti, che non guardano in faccia a niente e nessuno.
Differenti sono la malvagità e la pulsione per la morte messe in mostra in The Fake, sebbene le loro radici affondino nel medesimo terreno mostrato nel film precedente: la debolezza. In The Fake assistiamo al tentativo di un uomo di smascherare una truffa perpretata da un falso santone che, giunto in un piccolo villaggio, approfitta dei bisogni della gente comune per convincerla a farsi dare i loro soldi, nella speranza di accedere al Paradiso una volta morti. A questa truffa prende inconsciamente parte un vero prete che crede in ciò che fa, che pensa davvero di aiutare la povera gente di quel piccolo paesino. La religione diviene, tra le mani di Yeon Sang-ho, il simbolo dell’ingenuità di chi è buono (o di chi si è convinto di esserlo) e lo strumento di soggiogazione dei deboli da parte di chi è malvagio. In ogni caso, la credenza in una sovrastruttura divina che ha il potere decisionale sulla nostra esistenza e che può scegliere chi passerà l’eternità della morte nella beatitudine del Paradiso, in The Fake (titolo emblematico), viene ridotta a droga psicotropa del bisognoso, che, nuovamente, viene infettato dal virus della religione, portandolo a discriminare chi ha una visione differente. Il protagonista, infatti, ha delle posizioni diverse riguardo la religione e prova in tutti i modi a smascherare la truffa ordita dal santone, venendo però isolato e discriminato da tutta la popolazione del villaggio, perfino dalla sua famiglia stessa, moglie e figlia, con le quali egli ha un rapporto molto controverso e violento. Non v’è un buono, né tra i credenti né tra gli atei: chi è credente è ridicolo, chi è ateo è violento, chi si pone nel mezzo è crudele. I personaggi di Yeon sono miseri animali che il regista si diverte a deridere. La polizia non crede all’ateo protagonista, che cerca di liberare la comunità da questa truffa e, in senso più esteso, dalla religione, così costui è costretto a cercare la giustizia con le proprie mani, arrivando anche a macchiarsele con il sangue di altre persone.
Ultimo in ordine cronologico è Seoul Station, forse il meno efficace dei tre film nella propria critica, forse il meno riuscito ma pur sempre un lungometraggio decisamente degno d’attenzione. In un certo senso, Seoul Station è la materializzazione di ciò che si è sempre mosso silenzioso ed invisibile nei due film precedenti: sia in The King of Pigs che in The Fake, il male e la pulsione per la morte sono subliminalmente ritratte come un virus che si diffonde crudelmente ed inesorabilmente tra la gente; questo virus ideologico, però, non è mai stato esplicitato nel corso dei due film. In Seoul Station abbiamo a che fare con un virus effettivo, un virus che trasforma gli esseri umani in infetti/zombie che divorano il prossimo. Si potrebbero spendere fiumi di parole sulle implicazioni filosofiche della figura dello zombie, cosa che è già stato fatta da numerosi studiosi (a tal proposito vi rimando ad un video dello youtuber Rick DuFer molto interessante che troverete a fine articolo), ma ci soffermeremo su un solo aspetto, veramente affascinante e spaventoso allo stesso tempo: lo zombie, o l’infetto nel caso di Seoul Station, non è un mostro sconosciuto ma è un amico, un parente, un conoscente che ha perso la propria capacità di intendere e volere e che risponde solo all’istinto più profondo del nostro animo, quello della sopraffazione e della violenza, al quale abbiamo accennato poco sopra. La pulsione per la morte ed il disfacimento sociale sono strettamente collegati, sembra voler dire Yeon Sang-ho in Seoul Station, nel quale i rapporti interpersonali vengono annichiliti dalla morte e dal dubbio: in una situazione simile, la fiducia nell’altrui persona non può che vacillare e crollare. In uno stato di caos sociale simile, cosa fa il Governo? Instaura l’esercito nelle città. Per combattere gli infetti? No, per combattere chi protesta affinché chi detiene il potere faccia qualcosa per difenderli. Lo Stato si schiera non a favore del popolo contro la piaga ma contro il popolo a favore della propria salvezza. Perché correre il rischio di salvare la gente comune quando io, il Potente, posso starmene al sicuro e lasciare che gli altri muoiano?