C’è una sottile linea che separa il capriccio di un cineasta consumato, dal punto più estremo e coraggioso della sua poetica. Terry Gilliam è forse il regista più autentico degli ultimi 30 anni. Uno di quelli che ama la settima arte al punto d’impazzire per essa.
L’uomo che uccise Don Chisciotte è un gesto d’amore urgente e folle. Come The Man Who Shot Liberty Valance è stato un crepuscolare atto ultimo sulla mitologia del West, nella stessa maniera The Man Who Killed Don Quixote rappresenta per Gilliam una personalissima riflessione metacinematografica. Le immagini in movimento sono sempre più sterili e in balia dei soldi dei produttori che decidono nel bene e nel male le sue sorti. Forse il cinema che esala il suo ultimo respiro.
La storia di questo film la conosciamo già. Tutto ebbe inizio 25 anni or sono (e nell’incipit della pellicola Giliam ci tiene a specificarlo). Il primo progetto venne parzialmente girato nel 2000 e prevedeva Jean Rochefort e Johnny Depp (fresco della collaborazione con il regista in Paura e delirio a Las Vegas). Ma tutto naufragò (termine scelto con cura). Di quella folle avventura rimase il bellissimo documentario del dietro le quinte Lost in La Mancha, firmato da Keith Fulton e Louis Pepe, due collaboratori che già in precedenza avevano realizzato il backstage e un documentario sul film L’esercito delle 12 scimmie. In seguito al fallimento del progetto, Gilliam perse i diritti della sceneggiatura, recuperandoli solamente nel 2006. Furono accostati allora altri nomi nel cast del film: Ewan McGregor, Jack O’Connell e infine Adam Driver. Quest’ultimo conosciuto dal regista in un pub, dove a lungo parlarono del progetto.
La sceneggiatura ovviamente era già pronta da tempo. Un incrocio tra il celebre romanzo picaresco Don Chisciotte della Mancia e Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain.
Il giovane e idealista Toby (appunto Driver) si ritrova a girare la sua personale versione del Don Chisciotte coinvolgendo nel cast attori non professionisti. Tra loro un anziano calzolaio (Jonathan Pryce). Anni dopo i due si ritrovano quasi per caso e l’uomo, impazzito, è ormai convinto di essere realmente Don Chisciotte rivedendo in Toby il suo Sancho Panza. A questo punto inizia un folle on the road sospeso tra i giorni nostri e il XVI secolo.
Gilliam tiene l’acceleratore a tavoletta. Non ci sono filtri (se non fotografici) e nessun compromesso. La pellicola è un folle e barocco vortice. Per l’autore è l’occasione perfetta per riflettere tanto sul cinema, quanto sul concetto stesso di identità oltre ad una neanche tanto velata critica alla società occidentale, in particolare quella europea.
Evidenti sono i rimandi felliniani nel modo in cui Gilliam mette su questo baraccone freak pieno di drop out che combattono i mulini a vento. In fondo lo stesso regista è uno di loro e il film sembra una speculazione autobiografica.
Un deus ex machina presentissimo nel film, non solo nelle tematiche ma anche nell’estetica. La fotografia, mai scontata, esalta ancor più il dualismo uomini o maschere, verità o illusione. La fiaba diventa realtà e viceversa grazie ad una serie di geniali espedienti narrativi.
Toby Grisoni (che poi è il nome dello sceneggiatore e storico collaboratore di Gilliam) compie un gesto simbolico narrativamente essenziale rompendo lo schermo e trovandosi dall’essere un regista viziato al fedele scudiero Sancho Panza. Un po’ com’era accaduto nel 1988 nella La rosa purpurea del Cairo in uno degli ultimi capolavori di Woody Allen.
E forse era proprio in quegli anni e con quell’ardore artistico che Gilliam avrebbe dovuto girare questo film. O forse in fondo l’ha fatto. Nel 1988 infatti l’autore filmò il suo primo Chisciotte con il meraviglioso Le avventure del Barone di Munchausen e in parte riuscì a ripetersi tre anni dopo con un altro follia ed un altro folle, ne La leggenda del re pescatore.
Ma la storia non è stata clemente con questo progetto cinematografico, ed è per questo che abbiamo dovuto attendere il 2018 per ammirare una pellicola meravigliosa di un regista forse un po’ acciaccato ma pur sempre vitale.